80° anniversario dell’eccidio del CUP a Bosco di Corniglio/2

20 ottobre 2024

TOMMASO MARTINELLI

22 anni

ANPI COLLECCHIO


Alla base di questo mio breve intervento, ci sono due quesiti di fondo a cui cercherò di dare risposta: 1) che cosa mi ha spinto ad entrare nella grande famiglia ANPI in così giovane età ? 2) Perché un ventenne, nel 2024, dovrebbe iscriversi alla nostra associazione ? Per rispondere alla prima domanda, vorrei tentare un azzardatissimo parallelo storico tra due persone, nate dalla mia fantasia che per semplicità chiameremo entrambi Mario Rossi. [...]

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Un Mario Rossi nato nel 2002 e un Mario Rossi nato 80 anni prima nel 1922.

Partiamo dal Mario Rossi nato nel 2002. Il nostro Mario frequenta le scuole elementari, le medie e le superiori. Poi si iscrive all’università e con qualche difficoltà cerca di

barcamenarsi con gli studi. Oserei dire una vita tranquilla, una vita normale.

Pensiamo ora, invece, al suo alter ego nato all’inizio del 1922. A pochi mesi dalla nascita Mario vive le gloriose giornate di Agosto, quando a Parma gli abitanti dell’Oltretorrente erigono le barricate e impediscono ai fascisti di entrare nei loro borghi. Naturalmente Mario non ricorda direttamente queste gesta, se non attraverso le parole dei suoi cari. Così come non ricorda che sempre in quell’anno, ad ottobre, Mussolini prende il potere a seguito della Marcia su Roma.

Il nostro Mario cresce e frequenta le scuole elementari fascistizzate, se è fortunato fino alla quinta, se deve aiutare il babbo nei campi o in bottega fino alla terza.

A 17 anni scoppia la seconda guerra mondiale, a 18 anni anche l’Italia entra nel conflitto, a 20 anni viene arruolato nell’esercito e a 21 anni, a seguito dell’8 settembre, decide di salire in montagna.

Fino a 23 anni rimane in questi monti e verso la fine di aprile può finalmente scoprire il significato della parola Libertà.

Credo, dunque, che la risposta migliore al quesito iniziale sia proprio questa: la mia scelta di entrare in ANPI è dovuta alla consapevolezza che la piccola porzione di mondo in cui viviamo sia più libera, più giusta e più uguale, rispetto a quella di 80 anni fa, grazie alla lotta e alle fatiche di Mario e alle migliaia di altri ragazzi e ragazze che come lui imbracciarono il moschetto e andarono su in montagna a combattere quel regime che li avevi privati di tutto per più di vent’anni.

Veniamo ora alla seconda domanda, se è vero tutto quello che ci siamo appena detti, perché un ragazzo di vent’anni di oggi dovrebbe ancora iscriversi alla nostra associazione?

Credo che l’errore più grosso da non commettere sia proprio quello di considerare i diritti di cui godiamo come assodati e irrevocabili, non è così. Ci dimentichiamo che non è stato così per migliaia di generazioni prima di noi.

Così come sono stati conquistati, possono essere persi e lo vediamo tutti giorni con questo governo; dall’attacco alla sanità pubblica, alla precarietà sul lavoro, passando per una scuola pubblica sempre più bistrattata.

Vi è anche un’altra questione, fino ad ora abbiamo parlato della nostra porzione di mondo, della nostra Emilia e della nostra Italia, ma se allarghiamo un attimo lo zoom, i diritti di cui abbiamo parlato si sciolgono come neve al sole.

Per non parlare delle decine e decine di conflitti che tutt’ora sconvolgono il nostro pianeta: Palestina, Yemen, Libano, Ucraina, Mali, Myanmar, Congo; solo per citarne alcuni.

In sostanza, credo che un ventenne debba iscriversi perché possiamo migliorare questa nostra Emilia, questa nostra Italia e questo nostro mondo e possiamo farlo tutti insieme

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80° anniversario dell’eccidio del CUP a Bosco di Corniglio

20 ottobre 2024 Orazione Ufficiale

Albertina Soliani

Presidente dell'Istituto Alcide Cervi

Vicepresidente Nazionale ANPI


Autorità, rappresentanti delle Istituzioni, Polizia Locale, caro don Orlando, Associazioni partigiane, Cittadini, 80 anni fa, in questo luogo, in una mattina come questa, il 17 ottobre, arrivarono di sorpresa, con tradimento, circa 200 soldati tedeschi, da Berceto, e fu decapitato il Comando Unico delle formazioni partigiane parmensi. Stavano ascoltando Radio Londra, in quella casa. Una tragedia: caddero Giacomo di Crollalanza, il comandante “Pablo”, e “Renzi”, Gino Menconi, comandante della piazza di Parma, salito quassù per una riunione, stavano programmando l'occupazione della città. “Renzi” fu colpito, torturato, bruciato vivo. [...]

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E poi “Penola”, Giuseppe Picedi Benettini, ufficiale di collegamento, e tre partigiani della guardia: Enzo Gandolfi, Domenico Gervasi, Settimio Manenti. Siciliani, liguri, toscani, di questa terra: la Resistenza era l'Italia. “Uno dei giorni più infausti della Resistenza parmense”, scriverà poi “Nardo”. Riescono a salvarsi, gettandosi tra le rocce di un canalone, il vicecomandante Giacomo Ferrari, “Arta”, “Libero” e il commissario “Mauri”, Primo Savani. Erano i duri mesi dell'autunno del 1944, di quell' “autunno d'agosto” che a Sant'Anna di Stazzema, a Monte Sole e in altre località vide i rastrellamenti nazifascisti, gli eccidi, la disumanità. Era il tempo della Resistenza, delle vite offerte per sconfiggere l'orrore che oscurava il mondo. Queste vite, qui, ressero l'urto della storia. Quel “duello sfolgorante”, come dice la Sequenza Pasquale, tra il bene e il male, la luce e le tenebre, la vita e la morte. Per aprire la via a un mondo nuovo, il nostro, che abbiamo vissuto nella libertà da loro conquistata. Qualche ora dopo, vennero qui due donne, come Antigone nella tragedia greca: Camilla, la sorella di Giacomo Ferrari, e Lalla Ferrari, la figlia di “Arta”, corse con l'angoscia nel cuore da una casa poco distante che le ospitava. Nell'aria l'odore degli incendi. “La notizia”, dirà Nardo, “corse tra i distaccamenti come una folata gelida”. Non si arresero. Risorsero. Questa la scelta decisiva. Il giorno successivo, nella chiesa di Bosco si decide la continuità del comando delegando “Arta”. E il 23 ottobre i rappresentanti delle brigate partigiane parmensi procederanno alla elezione del nuovo Comando Unico Operativo formato dal Comandante “Arta”, dal Commissario “Poe”, Achille Pellizzari, dal Capo di Stato Maggiore “Nardo”, Leonardo Tarantini. Pensavano, i tedeschi, di avere fermato la Resistenza, si sbagliavano. “Arta”, “Poe”, “Nardo” guideranno i partigiani scesi dai monti nella sfilata a Parma del 25 aprile. Quel giorno, il 25 aprile del '45, che illuminerà tutta la storia del '900. Tanti, ancora, cadranno in quei mesi. Il 20 novembre, un mese dopo l'eccidio di Bosco, cadrà Brunetto, il figlio di “Arta”, insieme ad altri compagni, al ponte di Lugagnano. E in quel Natale, un mese dopo, “Arta” andrà a condividere il rancio con i prigionieri tedeschi che avevano ucciso i partigiani e suo figlio. Questa è la Resistenza, questa è la moralità della Resistenza: l'umanità al posto della disumanità, il cambiamento della storia travolta dal nazifascismo, che ha attraversato il mondo intero, dalla Normandia a Stalingrado, alle Midway nel Pacifico, che ha riscattato l'umanità dalla vergogna e dall'orrore del nazifascismo, della Shoah, della violenza, della guerra, della menzogna, della propaganda. Ha riscattato l'Italia dalla vergogna storica del fascismo. E oggi? È così difficile oggi dichiararsi antifascisti? E che altro mai potremmo noi essere? Chi non ha questo sentimento nell'animo, il sentimento civile che fa vivere le nostre istituzioni democratiche, non può rappresentare il nostro popolo, non può guidare l'Italia. Quella sfida, in condizioni diverse, è la stessa di oggi, tra democrazia e totalitarismo, tra pace e guerra, tra il diritto e la violenza. La stessa sfida è oggi, nel nostro presente: - quando le democrazie sono incerte e fragili, insidiate dall'autoritarismo, dai pochi che pretendono di comandare sui molti, nei paesi di consolidata democrazia, come in quelli che vi si affacciano ora: il mondo è globale, l'antifascismo è globale. Mai come oggi, tutto si tiene, dal Myanmar all'Africa, agli Usa, passando per l'Europa, dall'Ucraina a Gaza, al Libano; - quando gli interessi dei pochi, potenti nella finanza, negli armamenti, nella comunicazione determinano disuguaglianze, povertà, fame, limitando diritti e libertà; - quando il lavoro non è più il pilastro della vita e perciò non è più il fondamento della Repubblica, e le parole della Costituzione devono essere pronunciate di nuovo, come se fosse la prima volta, non solo nella vita della società e della politica, ma nelle stesse coscienze; - quando è minacciata l'unità della Patria, con proposte politiche e legislative di frammentazione territoriale e la centralità del Parlamento è messa di lato a vantaggio del potere del Capo del Governo con investitura popolare, con evidente disequilibrio dei poteri. Le sfide di oggi sono decisive, come allora. Questa è la stagione politica del presente, quando è messa in discussione la stessa universalità dei diritti, dalla salute all'istruzione. Quando la politica è debole, modesta, senza visione. E non è meglio la società, con le sue relazioni frantumate, le paure che tarpano le ali, le nuove generazione in faticosa solitaria ricerca di spazi, di opportunità, di valori. Non era questo il sogno della Resistenza, della democrazia che doveva nascere. Non era questa l'Italia nuova, antifascista e democratica, delineata nella Costituzione. Non era questa l'Europa che sognavano nel carcere di Ventotene. Un'Europa che ancora oggi si abbandona alle destre nazifasciste, invoca il rafforzamento dei confini, chiude le porte ai migranti, deportandoli oltre i confini. 80 anni dopo dobbiamo guardare in faccia la notte che stiamo attraversando, come disse Giuseppe Dossetti nel 1994: “dobbiamo saper riconoscere la notte per notte”. Scegliendo, come allora, di resistere. 80 anni dopo, di nuovo siamo circondati dalle guerre, dal terrorismo, dalla disumanità. La comunità internazionale ha smarrito gli strumenti del dialogo e della negoziazione, non ha più il diritto come bussola. C'è più che mai bisogno di antifascismo, di un antifascismo globale. Per fermare i conflitti, il riarmo, per impedire che gli eserciti colpiscano le popolazioni civili e sparino sull'ONU, segno dell'impotenza della diplomazia. Un salto, se si può dire, che oscura ancora di più l'orizzonte. Entra con impeto nel nostro tempo l'antica profezia di Isaia, di almeno 2500 anni fa: “Forgeranno le loro lance in falci, le loro spade in aratri”. La pace senza condizioni, perché quel che accade è semplicemente intollerabile. Ci sono da aprire subito percorsi di riparazione, di costruzione di un nuovo tempo di solidarietà, di fraternità, di visione. Il mondo sognato dai partigiani è ancora tutto davanti a noi. Quel mondo lo cercano le nuove generazioni: raccontiamoglielo e ascoltiamo il loro sogno. Cercano fiducia nel futuro, una terra salvata nella sua vita e nella sua bellezza, cercano valori di umanità, di fratellanza universale. Quel sogno è scritto nelle parole della Costituzione, è il suo canto. Quel sogno è la democrazia, per la quale ciascuno di noi è chiamato ad essere un rifugio sicuro. Un terreno da coltivare, da concimare, come ci diceva Tina Anselmi. È questo il canto dell'Italia oggi? C'è qualcosa che non torna se nessuno del Governo oggi frequenta questi luoghi di memoria. Vuol dire che abbiamo un problema, il problema della coerenza, della fedeltà alla Repubblica democratica e antifascista. Conquistata a così caro prezzo. Anche oggi, in altre latitudini, si resiste. Resistono i giovani, resistono le donne, ancora oppresse dall'oscurantismo ma indomite nella conquista della libertà, ancora a caro prezzo. Noi siamo con la loro Resistenza. La Resistenza non finì in quella mattina tragica di ottobre. I partigiani ripresero subito il filo spezzato, lo riannodarono. E ci hanno aperto la strada per una vita nuova. Ce l'hanno consegnata. 80 anni sono lunghi, la vita di una persona, ad esempio la mia. Sono un soffio nella storia. In realtà sono per sempre un legame. La loro vita e la nostra, e quella di coloro che verranno dopo di noi. Una "legacy". Un'unica domanda, esigente: che ne avete fatto dell'eredità che vi abbiamo consegnato? C'è da riprendere quel filo, con coraggio, con fiducia. Come fecero “Arta”, “Poe”, “Nardo” in quei giorni di dolore, nonostante tutto. Con il loro stesso spirito, con la loro stessa generosità, con la loro moralità. Con il loro amore per la vita, e per il popolo. Con il loro senso del dovere. Con la loro umanità. Con la loro speranza: non aveva vinto in loro la paura. Con il loro slancio: credevano che avrebbero cambiato il mondo. Fare memoria è questo: tenerli vivi con noi. È questo il loro messaggio oggi: non rassegnatevi, non rassegnatevi alla stanchezza, all'indifferenza. Il mondo può essere cambiato. Cambiatelo. Se è notte, tenete accesa la luce.Sl'è not, us farà dè”, dicono da sempre in Romagna. Adesso tocca a noi.

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Se a scuola “civica” vuol dire “individualista”

Paolo Papotti
responsabile Formazione Anpi nazionale componente Comitato nazionale Anpi

La prendo “alla lontana”, come dicono gli anziani dalle mie parti. Perché, come tutti sanno – anche gli anziani delle mie parti – per agire sull’attualità è necessario conoscere da dove si arriva, come condizione che permette alle persone serie – come gli anziani delle mie parti – di capire dove andare. Nessun esercizio di storia, tantomeno nozionistico, ma una conoscenza di base dei percorsi sui cui inserire proposte. E se tutto questo diventa normale per qualsiasi questione che riguarda le diverse esigenze che interessano la vita delle persone, assume carattere ancora più determinante quando si tratta di tematiche che riguardano la crescita culturale delle giovani generazioni che sono, insieme, le protagoniste del tempo che vivono e le protagoniste della costruzione del futuro. L’importanza sale in misura esponenziale, quando questi temi assumono carattere politico, istituzionale e costituzionale.. [...]

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Parto dall’inizio. Per inizio intendo la genesi del percorso che porta l’Italia fuori dalla dittatura fascista verso la costruzione di quella democrazia per cui – come gli anziani delle mie parti sanno – non è sufficiente vincere le elezioni per definirsi democratici, ma bisogna avere una storia che permette di realizzare la democrazia. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la vittoria della Resistenza sul nazifascismo, il Governo guidato da Ferruccio Parri comincia a tratteggiare la via per portare l’Italia fuori dal declino morale e materiale in cui l’ha lasciata la dittatura. Con decreto luogotenenziale 31 luglio 1945, n. 435, approvato dal Consiglio dei ministri del 12 luglio 1945, viene istituito il Ministero per la Costituente al quale è affidato il compito, come cita l’articolo 2, “di preparare la convocazione dell’Assemblea costituente (…) e di predisporre gli elementi per lo studio della nuova costituzione che dovrà determinare l’aspetto politico dello Stato e le linee direttive della sua azione economica e sociale”. Furono costituiti un Ufficio legislativo, un Ufficio affari generali, una Commissione economica (presieduta dall’economista Giovanni Demaria), una Commissione per gli studi relativi alla riorganizzazione dello Stato (presieduta dal giurista Ugo Forti) e una Commissione per lo studio dei problemi del lavoro (presieduta dall’economista esponente del PCI Antonio Pesenti). Questi organismi mettevano capo al Ministero presieduto da Pietro Nenni, che dichiarò: “nel breve volgere di un anno il Ministero per la Costituente adempì a tutti i compiti ad esso connessi”. Vennero, infatti, preparati diversi documenti che servivano a coadiuvare il lavoro dei costituenti: statistiche elettorali (dal 1848 al 1934), i testi di 11 costituzioni, alcuni esempi di meccanismo elettorale. Vennero prodotte, inoltre, delle Linee guida alla Costituente che affrontavano diverse questioni: il significato della Costituzione, il rapporto fra Assemblea costituente e Costituzione, la questione industriale, agraria e bancaria, il sistema tributario, le autonomie locali e il problema della scuola. Per entrare nello specifico, riproduco di seguito la parte introduttiva del documento sulla scuola, intitolato appunto “Scuola e Società”. È ben noto che il carattere e la fisionomia della scuola sono legati alla struttura della società, nella quale la scuola stessa opera. La scuola esprime, infatti, direttamente l’ambiente culturale di una data società, il quale a sua volta è in stretta connessione con le caratteristiche di organizzazione stessa che definiscono la società. E, inoltre, sulla scuola, non si riflettono soltanto gli orientamenti spirituali che la società esprime dal suo seno (e che pertanto della società stessa portano le impronte), ma anche i bisogni e gli interessi più immediati, di tecnica, di lavoro della società stessa. Potremmo dire che la scuola, è il termometro della situazione culturale della società, ma dobbiamo subito aggiungere che è un termometro «sui generis». Esso infatti non solo misura, ma influisce su ciò che misura. Se infatti la società agisce sulla scuola, è vero d’altra parte anche che la scuola agisce sulla società. Esse influiscono l’una sull’altra in un’interazione che è vitale per l’una e per l’altra. Infatti, se è evidente che la scuola non è concepibile staccata da una società che la alimenti del suo contenuto culturale, dei suoi interessi vivi e concreti, è altrettanto evidente che la società non potrebbe né mantenersi in vita né tanto meno svilupparsi, se attraverso la scuola, non istruisse e educasse i suoi membri. È a causa di questa interazione vitale che il problema della riforma della scuola non può essere disgiunto da quello della riforma della società. Da ciò segue che il problema della scuola difficilmente potrebbe pensarsi come fine a sé stesso. Se oggi ci poniamo il problema della scuola, lo facciamo perché sentiamo che la vecchia scuola è inadeguata a divenire elemento di sviluppo della nuova società che noi auspichiamo sorga dalle rovine di quella crollata sotto i nostri occhi. Ci troviamo quindi contemporaneamente di fronte ai problemi della nuova società e della nuova scuola (fonte: sito storico Camera dei deputati). Cosa ci consegna, ancora oggi, questa riflessione del 1945–46? Balzerà subito all’occhio che il testo (salvo l’ultimo capoverso che contestualizza alla perfezione il periodo storico), potrebbe essere taggato democrazia #formazione #educazione #coscienza civile. L’attualità è imbarazzante. Il testo ci esorta, ancora oggi, a considerare che la democrazia è una conquista e che educare il cittadino alla democrazia significa prima di tutto eliminare i residui della ideologia fascista e di certe abitudini alla passività, allo spirito servile, all’individualismo tipiche del ventennio. Ma non vi è solo questo aspetto negativo, cioè la necessità di liquidare il passato fascista per formare la coscienza democratica, civile. C’è anche un aspetto positivo, costruttivo: la capacità del singolo cittadino di agire come membro di un corpo sociale, al cui benessere, insieme a tutti gli altri cittadini, deve contribuire. In questo senso si può parlare di formazione di una coscienza democratica o, se vogliamo, di una coscienza civile. La scuola deve dunque dotarsi degli strumenti indispensabili ad analizzare e interpretare la complessità della realtà sociale al fine di formare un cittadino consapevole. Tutto ciò richiede una direzione della “cosa pubblica” che non obbedisca a interessi esclusivi, a singole appartenenze o a bisogni individualistici, ma che esprima gli interessi di tutta la società o – per dirla come gli anziani delle mie parti – di tutto il popolo. Se ciò avviene, la questione della scuola e la questione sociale possono sintetizzarsi con una formula: educazione civica. L’educazione civica è una materia scolastica fondamentale. Il suo obiettivo è quello di promuovere il senso civico e formare cittadini consapevoli, responsabili, critici e informati sui propri diritti e doveri. Cittadini attivamente coinvolti nella vita della comunità, capaci di contribuire positivamente alla crescita di una società sempre più complessa e interconnessa. Cittadini, infine, in grado di convivere pur avendo idee, ambizioni e prospettive diverse. E tutto ciò, inevitabilmente, richiama l’attualità della Costituzione come testo a cui il legislatore e, di conseguenza, le istituzioni democratiche devono fare riferimento, evitando appropriazioni di parte o ad personam. A partire dall’anno scolastico 2024/2025 entreranno in vigore le nuove linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica. Il testo sostituirà le linee guida precedenti, con l’aggiunta di ulteriori contenuti, e ridefinirà traguardi e obiettivi di apprendimento a livello nazionale. “Coerentemente con il nostro dettato costituzionale, le Nuove Linee Guida promuovono l’educazione al rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali”, dichiara Valditara, “valorizzando principi quali la responsabilità individuale e la solidarietà, la consapevolezza di appartenere ad una comunità nazionale, dando valore al lavoro e all’iniziativa privata come strumento di crescita economica per creare benessere e vincere le sacche di povertà, nel rispetto dell’ambiente e della qualità della vita”. “Ispirandosi al concetto di ‘scuola costituzionale’, il documento conferisce centralità alla persona dello studente e punta a favorire l’inclusione, a partire dall’attenzione mirata a tutte le forme di disabilità e di marginalità sociale. Le nuove Linee guida”, prosegue Valditara, “vogliono essere uno strumento di supporto e di guida per tutti i docenti e educatori chiamati ad affrontare, nel quotidiano lavoro di classe, le sfide e le emergenze di una società in costante evoluzione e di cui gli studenti saranno protagonisti. La scuola si conferma pilastro del futuro del nostro Paese” (fonte: sito Ministero Istruzione e Merito). Bisognerebbe fare attenzione, quando si parla di Costituzione, a non avanzare letture condizionate da visioni di parte, come, ad esempio, la consapevolezza di appartenere ad una comunità nazionale. Era prevedibile che l’On. Valditara inserisse questo argomento nelle nuove linee guida dell’educazione civica? Era necessario, indispensabile? Forse sì, forse no. Nelle nuove linee guida si legge anche: si promuove la formazione alla coscienza di una comune identità italiana come parte della civiltà europea e occidentale e della sua storia. Di conseguenza, viene evidenziato il nesso tra senso civico e sentimento di appartenenza alla comunità nazionale definita Patria, concetto espressamente richiamato e valorizzato dalla Costituzione. L’uso ridondante dei termini patria, nazione, comunità nazionale e identità italiana sembrerebbe voler marcare il territorio. La Costituzione, nei Principi Fondamentali, delinea con chiarezza la carta d’identità del popolo italiano. Una carta di identità che poggia sul principio della sovranità popolare, che proclama l’universalità dei diritti (art. 2), il dovere dell’accoglienza (art. 10); che ripudia la guerra e dunque rifiuta il nazionalismo che ne è spesso all’origine, (art. 11); che intende la solidarietà in primo luogo come rispetto dell’essere umano, indipendentemente dalla razza, dalla religione, dalla condizione sociale, dalle inclinazioni individuali; che esalta la dignità della persona invece del culto dell’individuo (art. 3); che riconosce il lavoro come fondamento della Repubblica democratica (art. 1) e strumento del progresso sia individuale che collettivo (art. 4); che decentra perché l’organizzazione dello Stato deve rappresentare l’unità e l’universalità delle possibilità (art. 5); che riconosce le diversità culturali (art. 6) e le libertà religiose (artt. 7 e 8); che definisce la vera ricchezza del nostro popolo (art. 9) e che vede nella bandiera (art. 12), il riferimento a quel patriottismo costituzionale, che è riferito ai valori espressi nei principi Costituzionali. Questi sono i fondamenti dell’appartenenza alla comunità nazionale definita Patria. Nelle nuove Linee guida si legge ancora: valorizzare i territori e la conoscenza delle culture e delle storie locali promuovendo una più ampia e autentica consapevolezza della cultura e della storia nazionale. In questo contesto, l’appartenenza all’Unione Europea è coerente con lo spirito originario del trattato fondativo, volto a favorire la collaborazione fra Paesi che hanno valori e interessi generali comuni. Come già notato, si parte da un orizzonte ampio per rinchiudersi nella ridotta identitaria. Promuovere la conoscenza e la valorizzazione dei patrimoni territoriali è evidentemente importante anche ai fini dell’integrazione con culture diverse. È risaputo e provato, infatti, che uno dei canali migliori di integrazione è la conoscenza delle peculiarità territoriali (storia, tradizioni, usi e costumi), ma come opportunità, non come modello da imporre. Se ciò comincia dalla scuola, sono proprio gli studenti, compresi quelli che arrivano da altre realtà, a essere veicolo di integrazione anche all’interno delle loro famiglie, così promuovendo scambi e confronti che si rivelano determinanti per la convivenza nelle comunità locali. Inquieta che tutto questo stia nella stessa frase che fa riferimento all’Europa e che vuole favorire la collaborazione con paesi che hanno valori e interessi generali in comune. Sul sito https://european–union.europa.eu/principles–countries–history/principles–and–values_it sono definiti principi, valori e obiettivi dell’Unione Europea, validi sia dentro che fuori i confini. L’Unione Europea si realizza nel rapporto col resto del mondo, non solo “in casa propria”. Dunque, come si fa a chiedere di rappresentare una cittadinanza europea che ci vede in relazione solo con chi è presumibilmente affine a noi? Su quali presunte basi e con quali caratteristiche? Sembrerebbe che la valorizzazione della cultura locale definisca il metro di misura per intrattenere relazioni col resto del mondo. Ma ci sono altre “novità” che lasciano perplessi, in rapporto sia alla Costituzione sia alle stesse opportunità educative. Nelle nuove linee guida si legge: da questo deriva anche la funzionalità della società allo sviluppo di ogni individuo (e non viceversa) e il primato dell’essere umano su ogni concezione ideologica. Pare si voglia teorizzare l’individualismo; quel e non viceversa fra parentesi sembra voler rimandare a una ideologia in cui l’individuo viene prima dello Stato e sta sopra di esso, come dichiarano le costituzioni liberali (vedi quella americana). Fu la prima donna premier inglese (perché in Inghilterra il premierato esiste, da noi no), a sostenere che “non esiste la società. Esistono solo individui e famiglie”. La nostra Costituzione insegna ai cittadini l’importanza dell’impegno individuale anche ai fini della cittadinanza attiva, che non si esaurisce con la segretezza del voto ma che si realizza anche nell’impegno nelle formazioni sociali di cui ci si trova a – o si sceglie di – far parte. Le formazioni sociali sono organizzazioni umane poste tra lo Stato e il singolo individuo, cioè corpi intermedi tra le istituzioni e il cittadino: la famiglia, la scuola, i partiti, i sindacati, il volontariato nelle sue diverse forme, gli enti privati (con o senza scopo di lucro), le confessioni religiose. Fu Giorgio La Pira, durante i lavori dell’Assemblea costituente, a sostenere che “i diritti della persona umana non sono integralmente tutelati se non sono tutelati anche i diritti delle comunità nelle quali la persona umana si espande in cui si organizza il corpo sociale. I cittadini, dunque, sono protagonisti del cambiamento sociale in quanto parte e membri della società stessa di cui fanno parte”. Non andrebbe dato impulso a questo concetto se si vuole costruire la società delineata dalla Costituzione? Proseguendo nella lettura delle nuove linee guida si legge inoltre: l’importanza di sviluppare anche una cultura dei doveri rende necessario insegnare il rispetto per le regole che sono alla base di una società ordinata, al fine di favorire la convivenza civile, per far prevalere il diritto e non l’arbitrio. Da qui l’importanza fondamentale della responsabilità individuale che non può essere sostituita dalla responsabilità sociale. In linea col punto precedente, anche se edulcorato dal sacrosanto concetto di responsabilità individuale, sembra emergere il tentativo di indebolire il concetto di società a favore di una prospettiva individualista. La convivenza civile contiene l’aspetto dei conflitti interpersonali, e non può essere garantita soltanto da regole e punizioni. Un’educazione civica al passo coi tempi dovrebbe dare strumenti per comporre i conflitti interpersonali che inevitabilmente derivano dalle diversità di cui la società civile è espressione. Nelle nuove Linee guida si legge infine: promozione della cultura d’impresa che, oltre a essere espressione di un sentimento di autodeterminazione, è sempre più richiesta per affrontare le sfide e le trasformazioni sociali attuali. Parallelamente, si valorizzano per la prima volta l’iniziativa economica privata e la proprietà privata che, come ben definisce la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è un elemento essenziale della libertà individuale. Inoltre: promozione dell’educazione finanziaria e assicurativa, dell’educazione al risparmio e alla pianificazione previdenziale, anche come momento per valorizzare e tutelare il patrimonio privato. Sembra che l’autodeterminazione del cittadino, cioè la facoltà di scegliere liberamente, sia legata al possesso di una cultura d’impresa, alla conoscenza delle dinamiche di mercato: siamo quasi all’apoteosi dell’homo oeconomicus, a una dimensione” (avrebbe detto Marcuse). Certo è importante affrontare il tema dell’economia (anche alla primaria!?), ma perché non affrontarlo come suggerisce l’articolo 47 della Costituzione? Nell’articolo viene trattato il risparmio popolare, che ha come obiettivo di assicurare tutela al risparmio dei lavoratori, anche incoraggiandone la difesa da ingiuste riduzioni o dall’inflazione. Cioè, si tutela l’accantonamento derivante da lavoro subordinato, artigianale o professionale, che è il più esposto, anche in senso negativo, alle logiche della finanza. Fermo restando che il lavoro ha anche come obiettivo quello di migliorare la propria situazione iniziale, non tutti potranno diventare imprenditori e non tutti potranno affidarsi a forme private di assicurazione. Bisognerebbe prospettare, se si vuole parlare di economia nell’educazione civica, strumenti sul diritto a un tenore di vita adeguato, cioè la comprensione del significato del risparmio e la capacità di valutare le reali possibilità di spesa o investimento. Uno dei fenomeni che mettono in difficoltà le famiglie è l’uso “sconsiderato” dei mutui: si accendono per cose necessarie (la casa, l’automobile), ma anche per cose non fondamentali (il televisore…): un adeguamento al meccanismo finanziario che gli americani chiamano indice di indebitamento, per cui più ci si indebita, più si contribuisce a sviluppare il mercato. Se l’economia deve diventare “educativa”, è necessario che non si creino false illusioni. Forse è da inserire nelle linee guida dell’educazione civica, quando si parla di economia e di valorizzare la cultura del lavoro, il rispetto delle diversità dei lavori e dei lavoratori. Perché tutti, con ruoli e responsabilità diverse, contribuiscono alla crescita della società. Il lavoro è dignitoso sempre e non esiste un lavoro più importante di un altro. Esistono lavori di diverse specie, ma l’imprenditore è importante esattamente come l’operaio che fa le pulizie nel suo ufficio. Questo aspetto sì, si può affrontare anche nella scuola primaria. Ma nelle Linee guida ci sono anche grandi assenze. Un primo tema: l’educazione all’affettività e alla sessualità. Da anni esperti e società civile propongono l’educazione sessuale come primo passo per arginare femminicidi e discriminazioni, ma l’argomento non è trattato. Affrontare l’affettività, la diversità sessuale e la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili dovrebbe far parte dei curricula scolastici italiani, non basta dire in una sola riga che “si rafforza e si promuove la cultura del rispetto verso la donna”. Un secondo tema: l’importanza dell’ambiente. Tutti, ma proprio tutti, hanno votato l’integrazione all’articolo 9 della Costituzione con una formula che, alla luce dei fatti, denuncia tutta la sua inefficacia: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. E dunque, “anche nell’interesse delle future generazioni” (come se la Costituzione del 1948 non fosse già rivolta al futuro e quindi anche alle generazioni che si susseguono… ma tant’è), non si ritiene argomento fondamentale dell’educazione civica il tema dell’aria che respiriamo, della terra dove camminiamo e dei mari che ci circondano come luoghi di vita. Come tali, da tutelare e salvaguardare anche dal mercimonio che l’economia continua a fare. Un terzo tema: l’analisi e la comprensione dei fenomeni del patriarcato, del razzismo, delle diverse fobie legate alle diverse sessualità, dell’odio per il diverso di cui, ogni giorno, si hanno notizie da cronaca nera e che minano la convivenza nella società. “La scuola si conferma pilastro del futuro del nostro Paese”, sostiene il Ministro. Ma quale idea di futuro? L’inserimento nelle Linee guida degli aspetti richiamati e l’esclusione di altri sembrano disegnare una società diversa da quella reale, mascherando il tutto dietro la Costituzione che, tuttavia, non è la coperta sotto la quale inserire gli interessi di parte, ma è un “progetto di società” che guarda al futuro, non al passato. Ecco perché si parla di senso civico, ecco perché l’educazione civica a scuola è un termometro della società e viceversa. Il futuro descritto nella Costituzione va costruito. La costruzione del futuro chiede alla politica realismo e visione, ai cittadini l’impegno ad essere protagonisti. Opposta alla costruzione del futuro c’è l’ineluttabilità degli eventi che si chiama destino, ciò che capita. Ma – come dicono gli anziani delle mie parti, che conoscono a memoria anche le arie di Gioachino Rossini – è meglio andare avanti, non indietro.
martedì 3 Settembre 2024

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Giacomo Ferrari a 50 anni dalla scomparsa

Nicola Maestri Presidente Comitato Provinciale ANPI di Parma  

È con grande rispetto e commozione che personalmente mi approccio a questo ricordo di Giacomo Ferrari, il Comandante “ARTA”, e lo faccio portandovi il saluto convinto di tutto il Comitato Provinciale di ANPI Parma.

La storia dei popoli e delle nazioni è anche storia di persone, allo stesso modo che l'evolversi della vita degli individui, con più accentuazione per alcuni di essi, accade sotto la spinta di avvenimenti che riguardano l'intera società. [...]

continua

[...]

L'esistenza di Giacomo Ferrari è esemplare sotto questo aspetto. Il suo formarsi come uomo, il suo agire in un lungo arco di tempo - tre quarti del secolo scorso e la fine del precedente - ci mostrano un continuo intreccio con le vicenda di Parma e dell'Italia: una guerra coloniale, due guerre mondiali, l'avvento di una dittatura, il riscatto da essa, la ricostruzione del Paese, l'avvio di un'epoca di pace laboriosa.

Cinquant'anni fa ci lasciava l'uomo che attraverso il suo emblematico esempio ci ha donato una grande eredità, quella della strada da seguire, dell'esempio cristallino da imitare. Leggendo la sua testimonianza, i suoi ricordi, se ne trova traccia anche nel recente libro scritto dal pronipote Fabio Pasini, nel suo “Una biografia sentimentale”, Ferrari descrive in maniera puntuale e aderente ciò che ogni individuo dovrebbe pretendere da sé stesso, quando dice: “Ritenevo che la prima cosa che dovevamo fare noi, che intendevamo criticare la società e cercare di modificarla, era dimostrare che sapevamo compiere il nostro dovere e poi chiedere agli altri di dare e fare quello che noi dicevamo dovessimo dare e fare”.

Un valore, quello di Giacomo Ferrari, esemplare, che tocca il suo punto apicale in occasione dell'uccisione del figlio Brunetto quando, nonostante il dolore straziante, si preoccupa della vita e della sicurezza dei suoi partigiani e poi, a poco più di un mese di distanza, la vigilia di Natale del 1944, divide lo scarso rancio con i prigionieri fascisti. Un gesto che descrive limpidamente la cifra dell'uomo.

Giacomo Ferrari è stato un autentico uomo delle istituzioni. Proviamo a pensarlo Prefetto subito dopo il 25 Aprile del 1945, poi uno dei Padri costituenti eletto appunto alla Costituente, quindi Senatore, Ministro dei Trasporti nel II e III Gabinetto De Gasperi, per poi assumere l'incarico di Sindaco della città di Parma dal 1951 al 1963, apportando modifiche tangibili sul tenore di vita, soprattutto delle classi meno abbienti.

Mi consentirete una piccola parentesi affettiva e famigliare, perché nel maggio del 1961 in Municipio a Parma, il Sindaco Ferrari, unirà in matrimonio mio padre Armando e mia madre Iride, figlia di Eleuterio, martire della Resistenza. Un ricordo intimo questo, che mi accompagna fin dalla tenera età. Non mi scuso per questa concessione al richiamo della nostalgia che è un sentimento insopprimibile fino a quando l'essere umano conserverà la coscienza di avere un passato. Essa però può essere sterile e addirittura ostacolare la trasmissione delle esperienze da una generazione all'altra quando si esaurisce nel rimpianto dei tempi andati, visti come carichi di virtù e paragonato a un presente foriero di ogni corruzione e ogni vizio. Ma la nostalgia non è solo amore, a volte struggente, per il nostro passato, è anche stimolo alla comprensione storica. E la parabola su questa terra di ARTA lo ha dimostrato plasticamente.

Per tornare proprio al suo percorso, dopo questa significativa esperienza da Sindaco, Giacomo Ferrari ritorna in Senato e mantiene l'incarico di vicepresidente della Commissione Trasporti fino al 1970, quando abbandona l'attività politica.

La vita di Giacomo Ferrari ha attraversato il cosiddetto “secolo breve” come una cometa luminosa, come quel faro che illumina i nostri caduti che non sono mai morti, per utilizzare le sue stesse parole. Come dimenticare l'orazione funebre che Giacomo Ferrari tenne in occasione dei funerali di Mariano Lupo, il giovanissimo ragazzo di Lotta Continua, ucciso brutalmente da alcuni neofascisti nel 1972. Un'orazione tenuta davanti a più di quarantamila persone, che rappresenta ancora oggi una lezione perenne di umanità e un lascito morale unico e insostituibile. Ma oggi, la sua vicenda, ci offre l'opportunità per gettare una luce e riflettere a fondo sul fenomeno che ha caratterizzato drammaticamente il Novecento, mi riferisco al fascismo, il grande rimosso del nostro Paese.

Se ne parla sempre ma non se parla mai davvero. Attualizzato o sminuito, sempre e comunque in qualche modo travisato da forme di revisionismo più o meno subdole. Ma il fascismo, come anche Arta ci ha così bene dimostrato, è stato qualcosa di molto più complesso e di ben più inquietante; e aguzzando la vista oggi lo potremmo scovare dove meno ci si aspetterebbe di trovarlo.

Abbiamo la fortuna di avere in eredità storie come quelle di Arta, ma anche di tante vittime del fascismo, che attraverso le loro drammatiche esperienze, hanno visto la nascita del regime a volte in presa diretta. Ci sono scritti illuminanti dedicati ad esempio da Antonio Gramsci all'ascesa del regime fascista. Scritti che ne rilevano i legami con le grandi trasformazioni che attraversano le società capitalistiche, e che mettono al centro le classi sociali, i tempi della storia, le forme del comando e i processi di modernizzazione. Scritti che mostrano l'evoluzione di un pensiero d'avanguardia, sempre vigile e acuto malgrado l'isolamento e le sofferenze della prigionia e della guerra. E sono proprio questi i pensieri a cui tornare ogni volta, per sorprendersi di quanto possano continuare a parlarci con la stessa attualità. Tutto ciò per ribadire con forza che per nostra fortuna abbiamo avuto saggi e illuminati pensatori, nati sul finire dell'ottocento, che continuano,

nonostante il tempo trascorso, a possedere il pregio della contemporaneità e la potenza del dono di offrirci profondi spunti di riflessione.

Giacomo Ferrari, uno dei figli più gloriosi e meritori della nostra città, è senza ombra di dubbio uno di questi uomini.

Ed è proprio questo il significato della sua lezione e di quella che definiamo la memoria storica, della quale da più parti si lamenta l'offuscamento e che comporta, laddove questa tendenza non sia contrastata, il dissolvimento della coscienza politica di un Paese, la perdita del senso della solidarietà nazionale, la brutale colonizzazione della sua cultura. Un popolo di “senza storia”, manipolabile e assoggettabile mediante le tecniche della comunicazione di massa, è condannato a perdere la propria autonomia, vale a dire la propria capacità di pensare e di decidere anche quando se ne rispettino le libertà formali.

Concludo.

Ricordare la figura e l'opera di Giacomo Ferrari non è perciò soltanto un atto di dovuta gratitudine, è anche un atto di fede nei valori dei quali e per i quali è vissuto e che hanno dato nuovo alimento alla tradizione che ha dato gloria a Parma e alla sua provincia conferendole un posto

d'onore nella storia nazionale del nostro Paese.

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80° anniversario dell’eccidio Piazza Garibaldi – 2

Carmen Motta  
Presidente Istituto Storico della Resistenza
e dell' Età Contemporanea
Parma 

Grazie Presidente, saluto le autorità civili, militari, le associazioni partigiane e combattentistiche i familiari; un grazie particolare a Nicola Maestri, presidente Anpi Provinciale, che mi ha proposto di intervenire nell’80’ della commemorazione dei martiri di piazza Garibaldi quale Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma. E’ per me un onore e porto il saluto di tutto l’istituto.

L’eccidio che oggi commemoriamo, quando fu commesso, scosse profondamente tutta la popolazione di Parma per l’efferatezza e la ferocia che si abbatté sui corpi dei 7 “martiri”, martiri appunto anche per questo, con una selvaggia e inaccettabile violenza; quegli avvenimenti  vivissimi nella coscienza civile della città, ferita e traumatizzata per come il regime fascista avesse raggiunto un apice inimmaginabile nell’infliggere torture, morte, privazione delle libertà personali. [...]

continua

[...]

E’ questa “coscienza” civile che non dimentica la spinta profonda per cui ogni anno istituzioni democratiche, familiari e cittadini vogliono riaffermare il loro ricordo pubblico.

Ma la memoria non è, e non può essere, solo doveroso ricordo; è soprattutto impegno nel sollecitare conoscenza, ricostruzione storica e adesione a quei valori conquistati, mai scontati, a fondamento della convivenza di una comunità che vi si riconosce e li sente propri.


La marcia del tempo, inesorabile, ottunde, cancella, affievolisce, mitiga sentimenti, emozioni, fatti, quasi non fossero mai esistiti, allontana consapevolezze e certezze.


I nostri giovani, ma non solo loro, conoscono il tempo breve drammatico vissuto dai 7 martiri? E’ storia che a loro appartiene?

Dubito, anzi temo di no.

Voi oggi presenti qui, al contrario, e io stessa, quei fatti li ho sentiti raccontare in famiglia, li ho “vissuti” attraverso la testimonianza e il dolore del racconto di chi invece li subì; abbiamo avuto questa straordinaria opportunità e tanti di noi, nati non molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, sono stati spinti a conoscere, studiando, leggendo la “storia” del nostro paese, del nostro territorio, nel ventennio della dittatura, a capire cosa fu la Resistenza, la Liberazione, la nascita della nuova repubblica e della democrazia.

Ricordiamo, allora, insieme ciò che avvenne.


Per questa mia sintetica ricostruzione indispensabile e prezioso il volume del 2003 “L’ultima notte di agosto. Il martirio di Giuseppe Barbieri.” di Marco Minardi.

Era l’ultima notte di agosto del 1944. Nel primo pomeriggio del 31 alcuni partigiani ( Giovanni Boni “il Monello” e altri non identificati successivamente) avevano ucciso, vicino al macello pubblico di allora, due fascisti della Brigata Nera di Parma, Luigi Gonzaga di San Secondo e Brenno Monardi detto “Bragòn” di Parma, particolarmente inviso alla popolazione dei borghi popolari ( per inciso Monardi si era schierato contro Balbo nelle Barricate del 1922 un significativo cambiamento!), e, forse, ma non ci sono riscontri storici certi, anche un militare tedesco.


L’uccisione dei due fascisti della B.N. avvenne in un momento in cui era in corso una forte rappresaglia contro gli ambienti antifascisti in città, in particolare nei quartieri popolari dei Capannoni del Cristo e in Oltretorrente.


Vincenzo Ferrari, Eleuterio Massari, Gedeone Ferrarini, Ottavio Pattacini, Afro Fanfoni, Bruno Vescovi, Giuseppe Barbieri , ormai privi di forze per le violenze subite, furono trascinati, all’alba del primo settembre, alla fucilazione in piazza Garibaldi.


I corpi scaricati, come stracci, e abbandonati davanti ai cancelli della Villetta, il cimitero cittadino, con divieto delle autorità di rimuovere le salme.

Il monito; nessuna pietà per i “sovversivi”; guardate, di questo siamo capaci. Se cadete nelle nostre mani vi massacriamo.


Incaricati dell’esecuzione miliziani della B.N. di Parma, con qualche elemento giunto appositamente dalla provincia; prima un vanto da rivendicare e poi, negli anni dei processi, un gesto da rinnegare, scaricando sui superiori la responsabilità. La vigliaccheria dei violenti.


Per i vertici fascisti della città il Federale Romualdi, Patterozzi capo ufficio politico, Maestri il comandante, risultò intollerabile che gli antifascisti resistenti osassero colpire nel centro abitato della città. Ne andava del loro prestigio.


Partì la rappresaglia nei quartieri popolari e si scelsero le vittime, per la vendetta, nei luoghi di tortura della B.N. di via Walter Branchi, vicino a strada delle Orsoline.


Ricordiamo chi erano i 7 martiri: Eleuterio Massari, 41 anni, merciaio ambulante dell’Oltretorrente, arrestato dieci giorni prima del supplizio da parte della B.N. di Parma guidata da “Bragòn”.


Comunista, fratello del ricercato gappista di Parma, Attilio Massari, detto “Bulen”, imprendibile.


La moglie Lidia, ricevuta dal Maestri della B.N., inutilmente lo implorò: Eleuterio non si era mai occupato attivamente di politica, era ammalato.

Nessuna pietà.


Ottavio Pattacini, 38 anni, comunista, ferroviere
, finito in una retata della B.N. di quei giorni. Sua moglie Anna era incinta dell’ottavo figlio. Anche lei supplicò clemenza. Nessuna pietà.


Bruno Vescovi, 18 anni, partigiano della 31’ Brigata Garibaldi Copelli, tipografo
, catturato a casa in b.go Sorgo in Oltretorrente perché ferito durante un rastrellamento in montagna. Una soffiata lo fece arrestare.

Nessuna pietà.

Afro Fanfoni da tempo in carcere, 40 anni, contadino della bassa parmense, anarchico, arrestato dalla B.N. su indicazione dei fascisti locali.

Nessuna pietà.

Giuseppe Barbieri, avvocato, arrestato privo di documenti, ma la sua identità e il suo ruolo nella Resistenza erano noti alla B.N.; “Basileus” il suo nome di battaglia, era un eccellente cospiratore, dedito, con grande capacità e intelligenza, allo sviluppo della lotta armata per la sconfitta del nemico.

Tutti i dirigenti della Resistenza erano consapevoli di quanto importanti fossero per il nemico. Atrocemente torturato per settimane nulla rivelò sulla organizzazione del movimento clandestino e i nomi di chi collaborava con lui. Fu un eroico silenzio che salvò i suoi compagni e per questo nessuna pietà.

A loro si aggiunsero Gedeone Ferrarini e Vincenzo Ferrari, prelevati dalle carceri tedesche in Cittadella.

Gedeone Ferrarini, 39 anni, abitava a Valera, commerciante di burro e latte dirigeva l’azienda familiare, sospettato di attività antifascista, quale lui era, scelse di restare in pianura per continuare la sua attività aziendale proseguendo ad appoggiare la Resistenza.
Nessuna pietà.


Vincenzo Ferrari, 41 anni, di B.go del Naviglio, cameriere
, Ardito del Popolo con Picelli nel 1922, caduto in una retata della B.N. in via Po il 22.7.1944. Nessuna pietà.

Altri due antifascisti Giustino Cortesi e Giuseppe Guatelli sfuggirono alla morte; Cortesi morì nel 1947 in conseguenza delle torture subite; Guatelli fu ritenuto più utile per uno scambio di prigionieri.


“Giustizia necessaria” la definì il giornale diretto da Pino Romualdi.


Di questa “giustizia necessaria” perirono i 7 martiri antifascisti; persone come noi, con un lavoro, una famiglia, degli ideali; divennero eroi loro malgrado; persone di diversa estrazione sociale, culturale, accomunati nella terribile fine delle loro vite dal coraggio della “scelta”.Sì. Si erano assunti la responsabilità della scelta, consapevoli del rischio, che non riguardava solo loro ma le loro famiglie, le amicizie; la loro esistenza per la Liberazione del popolo italiano. Per ricominciare con un’altra storia per tutti.

Cosa può essere più esemplare, più autentico, più indenne dallo scorrere del tempo di queste vite che 80 anni fa furono annientate affinchè la fine di una dittatura, la vittoria della Resistenza ridessero dignità, pace, giustizia, libertà al loro al nostro paese?


Sono certa che noi tutti dobbiamo a loro eterna riconoscenza e ammirazione, ma, più ancora, fino a che il tempo della nostra vita ce lo concederà, impegno a non commemorare solo la loro morte ma la loro viva presenza, oggi, per chi poco o nulla la conosce; solo così continueranno a vivere nel presente e nel futuro e non avranno donato il bene più prezioso, la vita, inutilmente.


E i carnefici?
I responsabili della dittatura fascista a Parma?
Fu fatta giustizia?


Vennero portati a giudizio con il primo processo della fine di settembre 1945 a cui parteciparono tantissime persone di Parma e provincia, con i famigliari delle vittime dell’eccidio. E tale era la rabbia nei loro confronti che successero tumulti davanti e in tribunale.

La requisitoria del pubblico ministero Primo Savani, futuro sindaco della città, dimostrò che furono sacrificati sette cittadini estranei al fatto per cui furono incarcerati, torturati, fucilati.

La Corte Straordinaria d’Assise condannò dodici dei tredici imputati; otto a morte mediante fucilazione, quattro a lunghe pene detentive.

Ci vollero molti anni e altri processi prima di vedere concluso l’iter giudiziario.

Da Parma, a Piacenza, a Firenze, ad Ancona. Un ulteriore calvario per i famigliari, con un pesante aggravio anche delle spese per assistere ai processi.

A Firenze, 1948, dove il processo riprese per la terza volta, la requisitoria del procuratore chiese la condanna all’ergastolo per tutti gli imputati; nel frattempo il parlamento aveva abolito la pena di morte ed era intervenuta l’amnistia per molti reati del ventennio fascista.

Maestri, Cavatorta, Patterozzi, Lisoni (i due ultimi latitanti) condannati all’ergastolo, Melani a 24 anni, Rosi e Martello a 21 anni.

Il processo, in sostanza, aveva confermato la responsabilità degli uomini della B.N. come evidenziato dal primo processo a Parma.

Poi su ricorso degli avvocati difensori nel 1950 il nuovo esame ad Ancona.

Nel 1951 nel nuovo processo, trasferito da Roma a Macerata, Romualdi, accusato di aver ordinato l’uccisione dei sette detenuti per rappresaglia la notte del 31.8.1944. adottò la linea difensiva di scaricare tutta la responsabilità sui tedeschi, giustificando le esecuzioni nelle piazze e nelle carceri come atti di obbedienza verso ordini superiori provenienti dai comandi militari tedeschi.

Sostanzialmente la subordinazione delle milizie fasciste della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito occupante tedesco.

Nessuna dignità, nessun onore, miseria umana e politica di un gerarca fascista.

Romualdi volle dare di sé e della fine ingloriosa della Repubblica di Salò un’immagine rovesciata rispetto ai documenti ufficiali della Prefettura degli anni 1943-1945, dei suoi articoli sulla Gazzetta di Parma e degli stessi atti processuali fino a quel momento svolti.

Romualdi, e altri esponenti del neonato MSI, si attribuiva una personalità adatta agli anni ’50, moderata, equilibrata. Prima un fascista intransigente, fautore della linea dura contro l’antifascismo, ora accorto politico.

Romualdi sostenne che non era responsabile dell’eccidio dei 7 patrioti antifascisti in piazza Garibaldi, né delle atroci torture a cui erano stati sottoposti; la sentenza assolutoria “per non aver commesso il fatto” giunse il 23 maggio 1951.

L’ex federale fascista, incarcerato nel 1948, fu liberato alla vigilia del processo di Macerata; Patterozzi era ancora latitante.

La “giustizia” per loro fu questa.


Ecco uno, tra i molti, capovolgimenti della storia reale; quella giudiziaria, è noto, spesso non coincide con la prima ma ciò non toglie che i fatti abbiano dimostrato il contrario.

Tutti colpevoli, nessun colpevole per un regime che assassinò migliaia di cittadini italiani e inviò nei lager nazisti una moltitudine di connazionali di religione ebraica, antifascisti, omosessuali, militari che non aderirono alla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre 1943.

Fu la Resistenza che riscattò l’onore della patria.

Fu la Costituzione repubblicana che definì i caratteri di uno stato democratico per un paese rinato dalle macerie di un regime totalitario negatore e persecutore dei diritti fondamentali di ogni persona.

Nonostante tutto questo i conti con il ventennio fascista l’Italia, mio personale giudizio ma non solo mio, non li ha mai fatti fino in fondo.

Analizzare le cause richiederebbe più tempo di quanto mi consenta il mio intervento. Ma questo è uno dei nodi che ancora non sono stati sciolti definitivamente.

E la storia ci insegna, invece, che prima o poi i nodi non sciolti riemergono e il tentativo di riscrivere la storia ad uso e consumo di chi, pro tempore, gestisce il potere non è mai scongiurato.

Non sono solo i fascisti del terzo millennio, come loro stessi si definiscono, che vorrebbero imporre un revisionismo storico del ventennio; è un tentativo che riguarda anche una storia più vicina a noi, quella degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso; lo stragismo neofascista che fondava le radici proprio là dove la Resistenza credeva di averle estirpate per sempre; colluso con organi “deviati”dello stato, coperto da tanti, troppi esponenti ai massimi livelli istituzionali; lo stato repubblicano, democratico, antifascista, non lo hanno difeso ma al contrario hanno tentato di logorarlo, di minarlo, per riportare indietro le lancette della storia.

Sta tutto qui il cuore della domanda: se non si è antifascisti cosa si è?

Domanda fastidiosa, pare, oggi, ma ineludibile.

Riordinando vecchi fascicoli dell’Istituto ho ritrovato articoli del quotidiano locale, la Gazzetta di Parma, che mi hanno colpita: una lettera al direttore del giornale del 3.9.1989 nella quale, in riferimento all’eccidio di piazza Garibaldi, si ribadiva che la rappresaglia, cito, “sarebbe stata voluta dal comando tedesco in seguito all’uccisione di un graduato germanico( fatto mai accertato) caduto insieme ai militi Brenno Monardi (Bragòn) e Luigi Gonzaga”, dunque alle “presunte” responsabilità della B.N. , con riferimento alla sentenza definitiva della Corte d’Assise di Macerata di assoluzione con formula piena di Romualdi ( deceduto nel 1988)e Pattarozzi.

Nessuna ammissione della responsabilità morale , prima ancora che politica e militare dei dirigenti fascisti di Parma. Nemmeno di chi torturò e fucilò i 7 martiri.

Come se le vite di ciascuno di quei resistenti, di quelle persone in carne e ossa, rientrassero negli “inconvenienti” della storia, di cui la responsabilità era, appunto, dell’occupante tedesco; come se il regime fascista di quell’occupante non fosse alleato e non ne condividesse a pieno le finalità.

Irritato l’estensore della lettera, forse, dal fatto che, il 2.9.1989 alla solenne celebrazione dei 7 martiri di piazza Garibaldi, Leonardo Tarantini (“Nardo”) presidente provinciale Anpi, unico intervento, gli dedicò , dopo la lettura dei singoli nomi dell’eccidio, queste parole:”Ai martiri gloriosi che con il loro sangue aprirono il cammino della libertà”.

Poche parole che riassumono il senso di quella tragedia e il suo valore inestimabile. Nessuna retorica da parte di chi visse direttamente e partecipò a quella vicenda storica che ancora ci interroga e ci chiede che il sacrificio di sette persone e dei loro ideali siano ancora per tutti la nostra bussola oggi, come ieri, come domani.

Con gli occhi aperti sul mondo, sul nostro presente, contro l’indifferenza dei ciechi e sordi, di chi non vuol sapere, di chi ignora volutamente, di chi mente sapendo di mentire.


La vita è una e i martiri di piazza Garibaldi l’hanno persa per noi; non volevano morire, volevano vivere e lottare per un paese libero, più giusto, in pace.


Chi ha fatto scempio dei loro corpi e delle loro vite ha creduto di annientarli e con loro i valori in cui credevano; ma così, al contrario, nemesi della storia, ha dato loro vita per sempre. 

Custodiamola.


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