Se a scuola “civica” vuol dire “individualista”

Paolo Papotti
responsabile Formazione Anpi nazionale componente Comitato nazionale Anpi

La prendo “alla lontana”, come dicono gli anziani dalle mie parti. Perché, come tutti sanno – anche gli anziani delle mie parti – per agire sull’attualità è necessario conoscere da dove si arriva, come condizione che permette alle persone serie – come gli anziani delle mie parti – di capire dove andare. Nessun esercizio di storia, tantomeno nozionistico, ma una conoscenza di base dei percorsi sui cui inserire proposte. E se tutto questo diventa normale per qualsiasi questione che riguarda le diverse esigenze che interessano la vita delle persone, assume carattere ancora più determinante quando si tratta di tematiche che riguardano la crescita culturale delle giovani generazioni che sono, insieme, le protagoniste del tempo che vivono e le protagoniste della costruzione del futuro. L’importanza sale in misura esponenziale, quando questi temi assumono carattere politico, istituzionale e costituzionale.. [...]

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Parto dall’inizio. Per inizio intendo la genesi del percorso che porta l’Italia fuori dalla dittatura fascista verso la costruzione di quella democrazia per cui – come gli anziani delle mie parti sanno – non è sufficiente vincere le elezioni per definirsi democratici, ma bisogna avere una storia che permette di realizzare la democrazia. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la vittoria della Resistenza sul nazifascismo, il Governo guidato da Ferruccio Parri comincia a tratteggiare la via per portare l’Italia fuori dal declino morale e materiale in cui l’ha lasciata la dittatura. Con decreto luogotenenziale 31 luglio 1945, n. 435, approvato dal Consiglio dei ministri del 12 luglio 1945, viene istituito il Ministero per la Costituente al quale è affidato il compito, come cita l’articolo 2, “di preparare la convocazione dell’Assemblea costituente (…) e di predisporre gli elementi per lo studio della nuova costituzione che dovrà determinare l’aspetto politico dello Stato e le linee direttive della sua azione economica e sociale”. Furono costituiti un Ufficio legislativo, un Ufficio affari generali, una Commissione economica (presieduta dall’economista Giovanni Demaria), una Commissione per gli studi relativi alla riorganizzazione dello Stato (presieduta dal giurista Ugo Forti) e una Commissione per lo studio dei problemi del lavoro (presieduta dall’economista esponente del PCI Antonio Pesenti). Questi organismi mettevano capo al Ministero presieduto da Pietro Nenni, che dichiarò: “nel breve volgere di un anno il Ministero per la Costituente adempì a tutti i compiti ad esso connessi”. Vennero, infatti, preparati diversi documenti che servivano a coadiuvare il lavoro dei costituenti: statistiche elettorali (dal 1848 al 1934), i testi di 11 costituzioni, alcuni esempi di meccanismo elettorale. Vennero prodotte, inoltre, delle Linee guida alla Costituente che affrontavano diverse questioni: il significato della Costituzione, il rapporto fra Assemblea costituente e Costituzione, la questione industriale, agraria e bancaria, il sistema tributario, le autonomie locali e il problema della scuola. Per entrare nello specifico, riproduco di seguito la parte introduttiva del documento sulla scuola, intitolato appunto “Scuola e Società”. È ben noto che il carattere e la fisionomia della scuola sono legati alla struttura della società, nella quale la scuola stessa opera. La scuola esprime, infatti, direttamente l’ambiente culturale di una data società, il quale a sua volta è in stretta connessione con le caratteristiche di organizzazione stessa che definiscono la società. E, inoltre, sulla scuola, non si riflettono soltanto gli orientamenti spirituali che la società esprime dal suo seno (e che pertanto della società stessa portano le impronte), ma anche i bisogni e gli interessi più immediati, di tecnica, di lavoro della società stessa. Potremmo dire che la scuola, è il termometro della situazione culturale della società, ma dobbiamo subito aggiungere che è un termometro «sui generis». Esso infatti non solo misura, ma influisce su ciò che misura. Se infatti la società agisce sulla scuola, è vero d’altra parte anche che la scuola agisce sulla società. Esse influiscono l’una sull’altra in un’interazione che è vitale per l’una e per l’altra. Infatti, se è evidente che la scuola non è concepibile staccata da una società che la alimenti del suo contenuto culturale, dei suoi interessi vivi e concreti, è altrettanto evidente che la società non potrebbe né mantenersi in vita né tanto meno svilupparsi, se attraverso la scuola, non istruisse e educasse i suoi membri. È a causa di questa interazione vitale che il problema della riforma della scuola non può essere disgiunto da quello della riforma della società. Da ciò segue che il problema della scuola difficilmente potrebbe pensarsi come fine a sé stesso. Se oggi ci poniamo il problema della scuola, lo facciamo perché sentiamo che la vecchia scuola è inadeguata a divenire elemento di sviluppo della nuova società che noi auspichiamo sorga dalle rovine di quella crollata sotto i nostri occhi. Ci troviamo quindi contemporaneamente di fronte ai problemi della nuova società e della nuova scuola (fonte: sito storico Camera dei deputati). Cosa ci consegna, ancora oggi, questa riflessione del 1945–46? Balzerà subito all’occhio che il testo (salvo l’ultimo capoverso che contestualizza alla perfezione il periodo storico), potrebbe essere taggato democrazia #formazione #educazione #coscienza civile. L’attualità è imbarazzante. Il testo ci esorta, ancora oggi, a considerare che la democrazia è una conquista e che educare il cittadino alla democrazia significa prima di tutto eliminare i residui della ideologia fascista e di certe abitudini alla passività, allo spirito servile, all’individualismo tipiche del ventennio. Ma non vi è solo questo aspetto negativo, cioè la necessità di liquidare il passato fascista per formare la coscienza democratica, civile. C’è anche un aspetto positivo, costruttivo: la capacità del singolo cittadino di agire come membro di un corpo sociale, al cui benessere, insieme a tutti gli altri cittadini, deve contribuire. In questo senso si può parlare di formazione di una coscienza democratica o, se vogliamo, di una coscienza civile. La scuola deve dunque dotarsi degli strumenti indispensabili ad analizzare e interpretare la complessità della realtà sociale al fine di formare un cittadino consapevole. Tutto ciò richiede una direzione della “cosa pubblica” che non obbedisca a interessi esclusivi, a singole appartenenze o a bisogni individualistici, ma che esprima gli interessi di tutta la società o – per dirla come gli anziani delle mie parti – di tutto il popolo. Se ciò avviene, la questione della scuola e la questione sociale possono sintetizzarsi con una formula: educazione civica. L’educazione civica è una materia scolastica fondamentale. Il suo obiettivo è quello di promuovere il senso civico e formare cittadini consapevoli, responsabili, critici e informati sui propri diritti e doveri. Cittadini attivamente coinvolti nella vita della comunità, capaci di contribuire positivamente alla crescita di una società sempre più complessa e interconnessa. Cittadini, infine, in grado di convivere pur avendo idee, ambizioni e prospettive diverse. E tutto ciò, inevitabilmente, richiama l’attualità della Costituzione come testo a cui il legislatore e, di conseguenza, le istituzioni democratiche devono fare riferimento, evitando appropriazioni di parte o ad personam. A partire dall’anno scolastico 2024/2025 entreranno in vigore le nuove linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica. Il testo sostituirà le linee guida precedenti, con l’aggiunta di ulteriori contenuti, e ridefinirà traguardi e obiettivi di apprendimento a livello nazionale. “Coerentemente con il nostro dettato costituzionale, le Nuove Linee Guida promuovono l’educazione al rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali”, dichiara Valditara, “valorizzando principi quali la responsabilità individuale e la solidarietà, la consapevolezza di appartenere ad una comunità nazionale, dando valore al lavoro e all’iniziativa privata come strumento di crescita economica per creare benessere e vincere le sacche di povertà, nel rispetto dell’ambiente e della qualità della vita”. “Ispirandosi al concetto di ‘scuola costituzionale’, il documento conferisce centralità alla persona dello studente e punta a favorire l’inclusione, a partire dall’attenzione mirata a tutte le forme di disabilità e di marginalità sociale. Le nuove Linee guida”, prosegue Valditara, “vogliono essere uno strumento di supporto e di guida per tutti i docenti e educatori chiamati ad affrontare, nel quotidiano lavoro di classe, le sfide e le emergenze di una società in costante evoluzione e di cui gli studenti saranno protagonisti. La scuola si conferma pilastro del futuro del nostro Paese” (fonte: sito Ministero Istruzione e Merito). Bisognerebbe fare attenzione, quando si parla di Costituzione, a non avanzare letture condizionate da visioni di parte, come, ad esempio, la consapevolezza di appartenere ad una comunità nazionale. Era prevedibile che l’On. Valditara inserisse questo argomento nelle nuove linee guida dell’educazione civica? Era necessario, indispensabile? Forse sì, forse no. Nelle nuove linee guida si legge anche: si promuove la formazione alla coscienza di una comune identità italiana come parte della civiltà europea e occidentale e della sua storia. Di conseguenza, viene evidenziato il nesso tra senso civico e sentimento di appartenenza alla comunità nazionale definita Patria, concetto espressamente richiamato e valorizzato dalla Costituzione. L’uso ridondante dei termini patria, nazione, comunità nazionale e identità italiana sembrerebbe voler marcare il territorio. La Costituzione, nei Principi Fondamentali, delinea con chiarezza la carta d’identità del popolo italiano. Una carta di identità che poggia sul principio della sovranità popolare, che proclama l’universalità dei diritti (art. 2), il dovere dell’accoglienza (art. 10); che ripudia la guerra e dunque rifiuta il nazionalismo che ne è spesso all’origine, (art. 11); che intende la solidarietà in primo luogo come rispetto dell’essere umano, indipendentemente dalla razza, dalla religione, dalla condizione sociale, dalle inclinazioni individuali; che esalta la dignità della persona invece del culto dell’individuo (art. 3); che riconosce il lavoro come fondamento della Repubblica democratica (art. 1) e strumento del progresso sia individuale che collettivo (art. 4); che decentra perché l’organizzazione dello Stato deve rappresentare l’unità e l’universalità delle possibilità (art. 5); che riconosce le diversità culturali (art. 6) e le libertà religiose (artt. 7 e 8); che definisce la vera ricchezza del nostro popolo (art. 9) e che vede nella bandiera (art. 12), il riferimento a quel patriottismo costituzionale, che è riferito ai valori espressi nei principi Costituzionali. Questi sono i fondamenti dell’appartenenza alla comunità nazionale definita Patria. Nelle nuove Linee guida si legge ancora: valorizzare i territori e la conoscenza delle culture e delle storie locali promuovendo una più ampia e autentica consapevolezza della cultura e della storia nazionale. In questo contesto, l’appartenenza all’Unione Europea è coerente con lo spirito originario del trattato fondativo, volto a favorire la collaborazione fra Paesi che hanno valori e interessi generali comuni. Come già notato, si parte da un orizzonte ampio per rinchiudersi nella ridotta identitaria. Promuovere la conoscenza e la valorizzazione dei patrimoni territoriali è evidentemente importante anche ai fini dell’integrazione con culture diverse. È risaputo e provato, infatti, che uno dei canali migliori di integrazione è la conoscenza delle peculiarità territoriali (storia, tradizioni, usi e costumi), ma come opportunità, non come modello da imporre. Se ciò comincia dalla scuola, sono proprio gli studenti, compresi quelli che arrivano da altre realtà, a essere veicolo di integrazione anche all’interno delle loro famiglie, così promuovendo scambi e confronti che si rivelano determinanti per la convivenza nelle comunità locali. Inquieta che tutto questo stia nella stessa frase che fa riferimento all’Europa e che vuole favorire la collaborazione con paesi che hanno valori e interessi generali in comune. Sul sito https://european–union.europa.eu/principles–countries–history/principles–and–values_it sono definiti principi, valori e obiettivi dell’Unione Europea, validi sia dentro che fuori i confini. L’Unione Europea si realizza nel rapporto col resto del mondo, non solo “in casa propria”. Dunque, come si fa a chiedere di rappresentare una cittadinanza europea che ci vede in relazione solo con chi è presumibilmente affine a noi? Su quali presunte basi e con quali caratteristiche? Sembrerebbe che la valorizzazione della cultura locale definisca il metro di misura per intrattenere relazioni col resto del mondo. Ma ci sono altre “novità” che lasciano perplessi, in rapporto sia alla Costituzione sia alle stesse opportunità educative. Nelle nuove linee guida si legge: da questo deriva anche la funzionalità della società allo sviluppo di ogni individuo (e non viceversa) e il primato dell’essere umano su ogni concezione ideologica. Pare si voglia teorizzare l’individualismo; quel e non viceversa fra parentesi sembra voler rimandare a una ideologia in cui l’individuo viene prima dello Stato e sta sopra di esso, come dichiarano le costituzioni liberali (vedi quella americana). Fu la prima donna premier inglese (perché in Inghilterra il premierato esiste, da noi no), a sostenere che “non esiste la società. Esistono solo individui e famiglie”. La nostra Costituzione insegna ai cittadini l’importanza dell’impegno individuale anche ai fini della cittadinanza attiva, che non si esaurisce con la segretezza del voto ma che si realizza anche nell’impegno nelle formazioni sociali di cui ci si trova a – o si sceglie di – far parte. Le formazioni sociali sono organizzazioni umane poste tra lo Stato e il singolo individuo, cioè corpi intermedi tra le istituzioni e il cittadino: la famiglia, la scuola, i partiti, i sindacati, il volontariato nelle sue diverse forme, gli enti privati (con o senza scopo di lucro), le confessioni religiose. Fu Giorgio La Pira, durante i lavori dell’Assemblea costituente, a sostenere che “i diritti della persona umana non sono integralmente tutelati se non sono tutelati anche i diritti delle comunità nelle quali la persona umana si espande in cui si organizza il corpo sociale. I cittadini, dunque, sono protagonisti del cambiamento sociale in quanto parte e membri della società stessa di cui fanno parte”. Non andrebbe dato impulso a questo concetto se si vuole costruire la società delineata dalla Costituzione? Proseguendo nella lettura delle nuove linee guida si legge inoltre: l’importanza di sviluppare anche una cultura dei doveri rende necessario insegnare il rispetto per le regole che sono alla base di una società ordinata, al fine di favorire la convivenza civile, per far prevalere il diritto e non l’arbitrio. Da qui l’importanza fondamentale della responsabilità individuale che non può essere sostituita dalla responsabilità sociale. In linea col punto precedente, anche se edulcorato dal sacrosanto concetto di responsabilità individuale, sembra emergere il tentativo di indebolire il concetto di società a favore di una prospettiva individualista. La convivenza civile contiene l’aspetto dei conflitti interpersonali, e non può essere garantita soltanto da regole e punizioni. Un’educazione civica al passo coi tempi dovrebbe dare strumenti per comporre i conflitti interpersonali che inevitabilmente derivano dalle diversità di cui la società civile è espressione. Nelle nuove Linee guida si legge infine: promozione della cultura d’impresa che, oltre a essere espressione di un sentimento di autodeterminazione, è sempre più richiesta per affrontare le sfide e le trasformazioni sociali attuali. Parallelamente, si valorizzano per la prima volta l’iniziativa economica privata e la proprietà privata che, come ben definisce la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è un elemento essenziale della libertà individuale. Inoltre: promozione dell’educazione finanziaria e assicurativa, dell’educazione al risparmio e alla pianificazione previdenziale, anche come momento per valorizzare e tutelare il patrimonio privato. Sembra che l’autodeterminazione del cittadino, cioè la facoltà di scegliere liberamente, sia legata al possesso di una cultura d’impresa, alla conoscenza delle dinamiche di mercato: siamo quasi all’apoteosi dell’homo oeconomicus, a una dimensione” (avrebbe detto Marcuse). Certo è importante affrontare il tema dell’economia (anche alla primaria!?), ma perché non affrontarlo come suggerisce l’articolo 47 della Costituzione? Nell’articolo viene trattato il risparmio popolare, che ha come obiettivo di assicurare tutela al risparmio dei lavoratori, anche incoraggiandone la difesa da ingiuste riduzioni o dall’inflazione. Cioè, si tutela l’accantonamento derivante da lavoro subordinato, artigianale o professionale, che è il più esposto, anche in senso negativo, alle logiche della finanza. Fermo restando che il lavoro ha anche come obiettivo quello di migliorare la propria situazione iniziale, non tutti potranno diventare imprenditori e non tutti potranno affidarsi a forme private di assicurazione. Bisognerebbe prospettare, se si vuole parlare di economia nell’educazione civica, strumenti sul diritto a un tenore di vita adeguato, cioè la comprensione del significato del risparmio e la capacità di valutare le reali possibilità di spesa o investimento. Uno dei fenomeni che mettono in difficoltà le famiglie è l’uso “sconsiderato” dei mutui: si accendono per cose necessarie (la casa, l’automobile), ma anche per cose non fondamentali (il televisore…): un adeguamento al meccanismo finanziario che gli americani chiamano indice di indebitamento, per cui più ci si indebita, più si contribuisce a sviluppare il mercato. Se l’economia deve diventare “educativa”, è necessario che non si creino false illusioni. Forse è da inserire nelle linee guida dell’educazione civica, quando si parla di economia e di valorizzare la cultura del lavoro, il rispetto delle diversità dei lavori e dei lavoratori. Perché tutti, con ruoli e responsabilità diverse, contribuiscono alla crescita della società. Il lavoro è dignitoso sempre e non esiste un lavoro più importante di un altro. Esistono lavori di diverse specie, ma l’imprenditore è importante esattamente come l’operaio che fa le pulizie nel suo ufficio. Questo aspetto sì, si può affrontare anche nella scuola primaria. Ma nelle Linee guida ci sono anche grandi assenze. Un primo tema: l’educazione all’affettività e alla sessualità. Da anni esperti e società civile propongono l’educazione sessuale come primo passo per arginare femminicidi e discriminazioni, ma l’argomento non è trattato. Affrontare l’affettività, la diversità sessuale e la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili dovrebbe far parte dei curricula scolastici italiani, non basta dire in una sola riga che “si rafforza e si promuove la cultura del rispetto verso la donna”. Un secondo tema: l’importanza dell’ambiente. Tutti, ma proprio tutti, hanno votato l’integrazione all’articolo 9 della Costituzione con una formula che, alla luce dei fatti, denuncia tutta la sua inefficacia: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. E dunque, “anche nell’interesse delle future generazioni” (come se la Costituzione del 1948 non fosse già rivolta al futuro e quindi anche alle generazioni che si susseguono… ma tant’è), non si ritiene argomento fondamentale dell’educazione civica il tema dell’aria che respiriamo, della terra dove camminiamo e dei mari che ci circondano come luoghi di vita. Come tali, da tutelare e salvaguardare anche dal mercimonio che l’economia continua a fare. Un terzo tema: l’analisi e la comprensione dei fenomeni del patriarcato, del razzismo, delle diverse fobie legate alle diverse sessualità, dell’odio per il diverso di cui, ogni giorno, si hanno notizie da cronaca nera e che minano la convivenza nella società. “La scuola si conferma pilastro del futuro del nostro Paese”, sostiene il Ministro. Ma quale idea di futuro? L’inserimento nelle Linee guida degli aspetti richiamati e l’esclusione di altri sembrano disegnare una società diversa da quella reale, mascherando il tutto dietro la Costituzione che, tuttavia, non è la coperta sotto la quale inserire gli interessi di parte, ma è un “progetto di società” che guarda al futuro, non al passato. Ecco perché si parla di senso civico, ecco perché l’educazione civica a scuola è un termometro della società e viceversa. Il futuro descritto nella Costituzione va costruito. La costruzione del futuro chiede alla politica realismo e visione, ai cittadini l’impegno ad essere protagonisti. Opposta alla costruzione del futuro c’è l’ineluttabilità degli eventi che si chiama destino, ciò che capita. Ma – come dicono gli anziani delle mie parti, che conoscono a memoria anche le arie di Gioachino Rossini – è meglio andare avanti, non indietro.
martedì 3 Settembre 2024

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Giacomo Ferrari a 50 anni dalla scomparsa

Nicola Maestri Presidente Comitato Provinciale ANPI di Parma  

È con grande rispetto e commozione che personalmente mi approccio a questo ricordo di Giacomo Ferrari, il Comandante “ARTA”, e lo faccio portandovi il saluto convinto di tutto il Comitato Provinciale di ANPI Parma.

La storia dei popoli e delle nazioni è anche storia di persone, allo stesso modo che l'evolversi della vita degli individui, con più accentuazione per alcuni di essi, accade sotto la spinta di avvenimenti che riguardano l'intera società. [...]

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L'esistenza di Giacomo Ferrari è esemplare sotto questo aspetto. Il suo formarsi come uomo, il suo agire in un lungo arco di tempo - tre quarti del secolo scorso e la fine del precedente - ci mostrano un continuo intreccio con le vicenda di Parma e dell'Italia: una guerra coloniale, due guerre mondiali, l'avvento di una dittatura, il riscatto da essa, la ricostruzione del Paese, l'avvio di un'epoca di pace laboriosa.

Cinquant'anni fa ci lasciava l'uomo che attraverso il suo emblematico esempio ci ha donato una grande eredità, quella della strada da seguire, dell'esempio cristallino da imitare. Leggendo la sua testimonianza, i suoi ricordi, se ne trova traccia anche nel recente libro scritto dal pronipote Fabio Pasini, nel suo “Una biografia sentimentale”, Ferrari descrive in maniera puntuale e aderente ciò che ogni individuo dovrebbe pretendere da sé stesso, quando dice: “Ritenevo che la prima cosa che dovevamo fare noi, che intendevamo criticare la società e cercare di modificarla, era dimostrare che sapevamo compiere il nostro dovere e poi chiedere agli altri di dare e fare quello che noi dicevamo dovessimo dare e fare”.

Un valore, quello di Giacomo Ferrari, esemplare, che tocca il suo punto apicale in occasione dell'uccisione del figlio Brunetto quando, nonostante il dolore straziante, si preoccupa della vita e della sicurezza dei suoi partigiani e poi, a poco più di un mese di distanza, la vigilia di Natale del 1944, divide lo scarso rancio con i prigionieri fascisti. Un gesto che descrive limpidamente la cifra dell'uomo.

Giacomo Ferrari è stato un autentico uomo delle istituzioni. Proviamo a pensarlo Prefetto subito dopo il 25 Aprile del 1945, poi uno dei Padri costituenti eletto appunto alla Costituente, quindi Senatore, Ministro dei Trasporti nel II e III Gabinetto De Gasperi, per poi assumere l'incarico di Sindaco della città di Parma dal 1951 al 1963, apportando modifiche tangibili sul tenore di vita, soprattutto delle classi meno abbienti.

Mi consentirete una piccola parentesi affettiva e famigliare, perché nel maggio del 1961 in Municipio a Parma, il Sindaco Ferrari, unirà in matrimonio mio padre Armando e mia madre Iride, figlia di Eleuterio, martire della Resistenza. Un ricordo intimo questo, che mi accompagna fin dalla tenera età. Non mi scuso per questa concessione al richiamo della nostalgia che è un sentimento insopprimibile fino a quando l'essere umano conserverà la coscienza di avere un passato. Essa però può essere sterile e addirittura ostacolare la trasmissione delle esperienze da una generazione all'altra quando si esaurisce nel rimpianto dei tempi andati, visti come carichi di virtù e paragonato a un presente foriero di ogni corruzione e ogni vizio. Ma la nostalgia non è solo amore, a volte struggente, per il nostro passato, è anche stimolo alla comprensione storica. E la parabola su questa terra di ARTA lo ha dimostrato plasticamente.

Per tornare proprio al suo percorso, dopo questa significativa esperienza da Sindaco, Giacomo Ferrari ritorna in Senato e mantiene l'incarico di vicepresidente della Commissione Trasporti fino al 1970, quando abbandona l'attività politica.

La vita di Giacomo Ferrari ha attraversato il cosiddetto “secolo breve” come una cometa luminosa, come quel faro che illumina i nostri caduti che non sono mai morti, per utilizzare le sue stesse parole. Come dimenticare l'orazione funebre che Giacomo Ferrari tenne in occasione dei funerali di Mariano Lupo, il giovanissimo ragazzo di Lotta Continua, ucciso brutalmente da alcuni neofascisti nel 1972. Un'orazione tenuta davanti a più di quarantamila persone, che rappresenta ancora oggi una lezione perenne di umanità e un lascito morale unico e insostituibile. Ma oggi, la sua vicenda, ci offre l'opportunità per gettare una luce e riflettere a fondo sul fenomeno che ha caratterizzato drammaticamente il Novecento, mi riferisco al fascismo, il grande rimosso del nostro Paese.

Se ne parla sempre ma non se parla mai davvero. Attualizzato o sminuito, sempre e comunque in qualche modo travisato da forme di revisionismo più o meno subdole. Ma il fascismo, come anche Arta ci ha così bene dimostrato, è stato qualcosa di molto più complesso e di ben più inquietante; e aguzzando la vista oggi lo potremmo scovare dove meno ci si aspetterebbe di trovarlo.

Abbiamo la fortuna di avere in eredità storie come quelle di Arta, ma anche di tante vittime del fascismo, che attraverso le loro drammatiche esperienze, hanno visto la nascita del regime a volte in presa diretta. Ci sono scritti illuminanti dedicati ad esempio da Antonio Gramsci all'ascesa del regime fascista. Scritti che ne rilevano i legami con le grandi trasformazioni che attraversano le società capitalistiche, e che mettono al centro le classi sociali, i tempi della storia, le forme del comando e i processi di modernizzazione. Scritti che mostrano l'evoluzione di un pensiero d'avanguardia, sempre vigile e acuto malgrado l'isolamento e le sofferenze della prigionia e della guerra. E sono proprio questi i pensieri a cui tornare ogni volta, per sorprendersi di quanto possano continuare a parlarci con la stessa attualità. Tutto ciò per ribadire con forza che per nostra fortuna abbiamo avuto saggi e illuminati pensatori, nati sul finire dell'ottocento, che continuano,

nonostante il tempo trascorso, a possedere il pregio della contemporaneità e la potenza del dono di offrirci profondi spunti di riflessione.

Giacomo Ferrari, uno dei figli più gloriosi e meritori della nostra città, è senza ombra di dubbio uno di questi uomini.

Ed è proprio questo il significato della sua lezione e di quella che definiamo la memoria storica, della quale da più parti si lamenta l'offuscamento e che comporta, laddove questa tendenza non sia contrastata, il dissolvimento della coscienza politica di un Paese, la perdita del senso della solidarietà nazionale, la brutale colonizzazione della sua cultura. Un popolo di “senza storia”, manipolabile e assoggettabile mediante le tecniche della comunicazione di massa, è condannato a perdere la propria autonomia, vale a dire la propria capacità di pensare e di decidere anche quando se ne rispettino le libertà formali.

Concludo.

Ricordare la figura e l'opera di Giacomo Ferrari non è perciò soltanto un atto di dovuta gratitudine, è anche un atto di fede nei valori dei quali e per i quali è vissuto e che hanno dato nuovo alimento alla tradizione che ha dato gloria a Parma e alla sua provincia conferendole un posto

d'onore nella storia nazionale del nostro Paese.

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80° anniversario dell’eccidio Piazza Garibaldi – 2

Carmen Motta  
Presidente Istituto Storico della Resistenza
e dell' Età Contemporanea
Parma 

Grazie Presidente, saluto le autorità civili, militari, le associazioni partigiane e combattentistiche i familiari; un grazie particolare a Nicola Maestri, presidente Anpi Provinciale, che mi ha proposto di intervenire nell’80’ della commemorazione dei martiri di piazza Garibaldi quale Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma. E’ per me un onore e porto il saluto di tutto l’istituto.

L’eccidio che oggi commemoriamo, quando fu commesso, scosse profondamente tutta la popolazione di Parma per l’efferatezza e la ferocia che si abbatté sui corpi dei 7 “martiri”, martiri appunto anche per questo, con una selvaggia e inaccettabile violenza; quegli avvenimenti  vivissimi nella coscienza civile della città, ferita e traumatizzata per come il regime fascista avesse raggiunto un apice inimmaginabile nell’infliggere torture, morte, privazione delle libertà personali. [...]

continua

[...]

E’ questa “coscienza” civile che non dimentica la spinta profonda per cui ogni anno istituzioni democratiche, familiari e cittadini vogliono riaffermare il loro ricordo pubblico.

Ma la memoria non è, e non può essere, solo doveroso ricordo; è soprattutto impegno nel sollecitare conoscenza, ricostruzione storica e adesione a quei valori conquistati, mai scontati, a fondamento della convivenza di una comunità che vi si riconosce e li sente propri.


La marcia del tempo, inesorabile, ottunde, cancella, affievolisce, mitiga sentimenti, emozioni, fatti, quasi non fossero mai esistiti, allontana consapevolezze e certezze.


I nostri giovani, ma non solo loro, conoscono il tempo breve drammatico vissuto dai 7 martiri? E’ storia che a loro appartiene?

Dubito, anzi temo di no.

Voi oggi presenti qui, al contrario, e io stessa, quei fatti li ho sentiti raccontare in famiglia, li ho “vissuti” attraverso la testimonianza e il dolore del racconto di chi invece li subì; abbiamo avuto questa straordinaria opportunità e tanti di noi, nati non molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, sono stati spinti a conoscere, studiando, leggendo la “storia” del nostro paese, del nostro territorio, nel ventennio della dittatura, a capire cosa fu la Resistenza, la Liberazione, la nascita della nuova repubblica e della democrazia.

Ricordiamo, allora, insieme ciò che avvenne.


Per questa mia sintetica ricostruzione indispensabile e prezioso il volume del 2003 “L’ultima notte di agosto. Il martirio di Giuseppe Barbieri.” di Marco Minardi.

Era l’ultima notte di agosto del 1944. Nel primo pomeriggio del 31 alcuni partigiani ( Giovanni Boni “il Monello” e altri non identificati successivamente) avevano ucciso, vicino al macello pubblico di allora, due fascisti della Brigata Nera di Parma, Luigi Gonzaga di San Secondo e Brenno Monardi detto “Bragòn” di Parma, particolarmente inviso alla popolazione dei borghi popolari ( per inciso Monardi si era schierato contro Balbo nelle Barricate del 1922 un significativo cambiamento!), e, forse, ma non ci sono riscontri storici certi, anche un militare tedesco.


L’uccisione dei due fascisti della B.N. avvenne in un momento in cui era in corso una forte rappresaglia contro gli ambienti antifascisti in città, in particolare nei quartieri popolari dei Capannoni del Cristo e in Oltretorrente.


Vincenzo Ferrari, Eleuterio Massari, Gedeone Ferrarini, Ottavio Pattacini, Afro Fanfoni, Bruno Vescovi, Giuseppe Barbieri , ormai privi di forze per le violenze subite, furono trascinati, all’alba del primo settembre, alla fucilazione in piazza Garibaldi.


I corpi scaricati, come stracci, e abbandonati davanti ai cancelli della Villetta, il cimitero cittadino, con divieto delle autorità di rimuovere le salme.

Il monito; nessuna pietà per i “sovversivi”; guardate, di questo siamo capaci. Se cadete nelle nostre mani vi massacriamo.


Incaricati dell’esecuzione miliziani della B.N. di Parma, con qualche elemento giunto appositamente dalla provincia; prima un vanto da rivendicare e poi, negli anni dei processi, un gesto da rinnegare, scaricando sui superiori la responsabilità. La vigliaccheria dei violenti.


Per i vertici fascisti della città il Federale Romualdi, Patterozzi capo ufficio politico, Maestri il comandante, risultò intollerabile che gli antifascisti resistenti osassero colpire nel centro abitato della città. Ne andava del loro prestigio.


Partì la rappresaglia nei quartieri popolari e si scelsero le vittime, per la vendetta, nei luoghi di tortura della B.N. di via Walter Branchi, vicino a strada delle Orsoline.


Ricordiamo chi erano i 7 martiri: Eleuterio Massari, 41 anni, merciaio ambulante dell’Oltretorrente, arrestato dieci giorni prima del supplizio da parte della B.N. di Parma guidata da “Bragòn”.


Comunista, fratello del ricercato gappista di Parma, Attilio Massari, detto “Bulen”, imprendibile.


La moglie Lidia, ricevuta dal Maestri della B.N., inutilmente lo implorò: Eleuterio non si era mai occupato attivamente di politica, era ammalato.

Nessuna pietà.


Ottavio Pattacini, 38 anni, comunista, ferroviere
, finito in una retata della B.N. di quei giorni. Sua moglie Anna era incinta dell’ottavo figlio. Anche lei supplicò clemenza. Nessuna pietà.


Bruno Vescovi, 18 anni, partigiano della 31’ Brigata Garibaldi Copelli, tipografo
, catturato a casa in b.go Sorgo in Oltretorrente perché ferito durante un rastrellamento in montagna. Una soffiata lo fece arrestare.

Nessuna pietà.

Afro Fanfoni da tempo in carcere, 40 anni, contadino della bassa parmense, anarchico, arrestato dalla B.N. su indicazione dei fascisti locali.

Nessuna pietà.

Giuseppe Barbieri, avvocato, arrestato privo di documenti, ma la sua identità e il suo ruolo nella Resistenza erano noti alla B.N.; “Basileus” il suo nome di battaglia, era un eccellente cospiratore, dedito, con grande capacità e intelligenza, allo sviluppo della lotta armata per la sconfitta del nemico.

Tutti i dirigenti della Resistenza erano consapevoli di quanto importanti fossero per il nemico. Atrocemente torturato per settimane nulla rivelò sulla organizzazione del movimento clandestino e i nomi di chi collaborava con lui. Fu un eroico silenzio che salvò i suoi compagni e per questo nessuna pietà.

A loro si aggiunsero Gedeone Ferrarini e Vincenzo Ferrari, prelevati dalle carceri tedesche in Cittadella.

Gedeone Ferrarini, 39 anni, abitava a Valera, commerciante di burro e latte dirigeva l’azienda familiare, sospettato di attività antifascista, quale lui era, scelse di restare in pianura per continuare la sua attività aziendale proseguendo ad appoggiare la Resistenza.
Nessuna pietà.


Vincenzo Ferrari, 41 anni, di B.go del Naviglio, cameriere
, Ardito del Popolo con Picelli nel 1922, caduto in una retata della B.N. in via Po il 22.7.1944. Nessuna pietà.

Altri due antifascisti Giustino Cortesi e Giuseppe Guatelli sfuggirono alla morte; Cortesi morì nel 1947 in conseguenza delle torture subite; Guatelli fu ritenuto più utile per uno scambio di prigionieri.


“Giustizia necessaria” la definì il giornale diretto da Pino Romualdi.


Di questa “giustizia necessaria” perirono i 7 martiri antifascisti; persone come noi, con un lavoro, una famiglia, degli ideali; divennero eroi loro malgrado; persone di diversa estrazione sociale, culturale, accomunati nella terribile fine delle loro vite dal coraggio della “scelta”.Sì. Si erano assunti la responsabilità della scelta, consapevoli del rischio, che non riguardava solo loro ma le loro famiglie, le amicizie; la loro esistenza per la Liberazione del popolo italiano. Per ricominciare con un’altra storia per tutti.

Cosa può essere più esemplare, più autentico, più indenne dallo scorrere del tempo di queste vite che 80 anni fa furono annientate affinchè la fine di una dittatura, la vittoria della Resistenza ridessero dignità, pace, giustizia, libertà al loro al nostro paese?


Sono certa che noi tutti dobbiamo a loro eterna riconoscenza e ammirazione, ma, più ancora, fino a che il tempo della nostra vita ce lo concederà, impegno a non commemorare solo la loro morte ma la loro viva presenza, oggi, per chi poco o nulla la conosce; solo così continueranno a vivere nel presente e nel futuro e non avranno donato il bene più prezioso, la vita, inutilmente.


E i carnefici?
I responsabili della dittatura fascista a Parma?
Fu fatta giustizia?


Vennero portati a giudizio con il primo processo della fine di settembre 1945 a cui parteciparono tantissime persone di Parma e provincia, con i famigliari delle vittime dell’eccidio. E tale era la rabbia nei loro confronti che successero tumulti davanti e in tribunale.

La requisitoria del pubblico ministero Primo Savani, futuro sindaco della città, dimostrò che furono sacrificati sette cittadini estranei al fatto per cui furono incarcerati, torturati, fucilati.

La Corte Straordinaria d’Assise condannò dodici dei tredici imputati; otto a morte mediante fucilazione, quattro a lunghe pene detentive.

Ci vollero molti anni e altri processi prima di vedere concluso l’iter giudiziario.

Da Parma, a Piacenza, a Firenze, ad Ancona. Un ulteriore calvario per i famigliari, con un pesante aggravio anche delle spese per assistere ai processi.

A Firenze, 1948, dove il processo riprese per la terza volta, la requisitoria del procuratore chiese la condanna all’ergastolo per tutti gli imputati; nel frattempo il parlamento aveva abolito la pena di morte ed era intervenuta l’amnistia per molti reati del ventennio fascista.

Maestri, Cavatorta, Patterozzi, Lisoni (i due ultimi latitanti) condannati all’ergastolo, Melani a 24 anni, Rosi e Martello a 21 anni.

Il processo, in sostanza, aveva confermato la responsabilità degli uomini della B.N. come evidenziato dal primo processo a Parma.

Poi su ricorso degli avvocati difensori nel 1950 il nuovo esame ad Ancona.

Nel 1951 nel nuovo processo, trasferito da Roma a Macerata, Romualdi, accusato di aver ordinato l’uccisione dei sette detenuti per rappresaglia la notte del 31.8.1944. adottò la linea difensiva di scaricare tutta la responsabilità sui tedeschi, giustificando le esecuzioni nelle piazze e nelle carceri come atti di obbedienza verso ordini superiori provenienti dai comandi militari tedeschi.

Sostanzialmente la subordinazione delle milizie fasciste della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito occupante tedesco.

Nessuna dignità, nessun onore, miseria umana e politica di un gerarca fascista.

Romualdi volle dare di sé e della fine ingloriosa della Repubblica di Salò un’immagine rovesciata rispetto ai documenti ufficiali della Prefettura degli anni 1943-1945, dei suoi articoli sulla Gazzetta di Parma e degli stessi atti processuali fino a quel momento svolti.

Romualdi, e altri esponenti del neonato MSI, si attribuiva una personalità adatta agli anni ’50, moderata, equilibrata. Prima un fascista intransigente, fautore della linea dura contro l’antifascismo, ora accorto politico.

Romualdi sostenne che non era responsabile dell’eccidio dei 7 patrioti antifascisti in piazza Garibaldi, né delle atroci torture a cui erano stati sottoposti; la sentenza assolutoria “per non aver commesso il fatto” giunse il 23 maggio 1951.

L’ex federale fascista, incarcerato nel 1948, fu liberato alla vigilia del processo di Macerata; Patterozzi era ancora latitante.

La “giustizia” per loro fu questa.


Ecco uno, tra i molti, capovolgimenti della storia reale; quella giudiziaria, è noto, spesso non coincide con la prima ma ciò non toglie che i fatti abbiano dimostrato il contrario.

Tutti colpevoli, nessun colpevole per un regime che assassinò migliaia di cittadini italiani e inviò nei lager nazisti una moltitudine di connazionali di religione ebraica, antifascisti, omosessuali, militari che non aderirono alla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre 1943.

Fu la Resistenza che riscattò l’onore della patria.

Fu la Costituzione repubblicana che definì i caratteri di uno stato democratico per un paese rinato dalle macerie di un regime totalitario negatore e persecutore dei diritti fondamentali di ogni persona.

Nonostante tutto questo i conti con il ventennio fascista l’Italia, mio personale giudizio ma non solo mio, non li ha mai fatti fino in fondo.

Analizzare le cause richiederebbe più tempo di quanto mi consenta il mio intervento. Ma questo è uno dei nodi che ancora non sono stati sciolti definitivamente.

E la storia ci insegna, invece, che prima o poi i nodi non sciolti riemergono e il tentativo di riscrivere la storia ad uso e consumo di chi, pro tempore, gestisce il potere non è mai scongiurato.

Non sono solo i fascisti del terzo millennio, come loro stessi si definiscono, che vorrebbero imporre un revisionismo storico del ventennio; è un tentativo che riguarda anche una storia più vicina a noi, quella degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso; lo stragismo neofascista che fondava le radici proprio là dove la Resistenza credeva di averle estirpate per sempre; colluso con organi “deviati”dello stato, coperto da tanti, troppi esponenti ai massimi livelli istituzionali; lo stato repubblicano, democratico, antifascista, non lo hanno difeso ma al contrario hanno tentato di logorarlo, di minarlo, per riportare indietro le lancette della storia.

Sta tutto qui il cuore della domanda: se non si è antifascisti cosa si è?

Domanda fastidiosa, pare, oggi, ma ineludibile.

Riordinando vecchi fascicoli dell’Istituto ho ritrovato articoli del quotidiano locale, la Gazzetta di Parma, che mi hanno colpita: una lettera al direttore del giornale del 3.9.1989 nella quale, in riferimento all’eccidio di piazza Garibaldi, si ribadiva che la rappresaglia, cito, “sarebbe stata voluta dal comando tedesco in seguito all’uccisione di un graduato germanico( fatto mai accertato) caduto insieme ai militi Brenno Monardi (Bragòn) e Luigi Gonzaga”, dunque alle “presunte” responsabilità della B.N. , con riferimento alla sentenza definitiva della Corte d’Assise di Macerata di assoluzione con formula piena di Romualdi ( deceduto nel 1988)e Pattarozzi.

Nessuna ammissione della responsabilità morale , prima ancora che politica e militare dei dirigenti fascisti di Parma. Nemmeno di chi torturò e fucilò i 7 martiri.

Come se le vite di ciascuno di quei resistenti, di quelle persone in carne e ossa, rientrassero negli “inconvenienti” della storia, di cui la responsabilità era, appunto, dell’occupante tedesco; come se il regime fascista di quell’occupante non fosse alleato e non ne condividesse a pieno le finalità.

Irritato l’estensore della lettera, forse, dal fatto che, il 2.9.1989 alla solenne celebrazione dei 7 martiri di piazza Garibaldi, Leonardo Tarantini (“Nardo”) presidente provinciale Anpi, unico intervento, gli dedicò , dopo la lettura dei singoli nomi dell’eccidio, queste parole:”Ai martiri gloriosi che con il loro sangue aprirono il cammino della libertà”.

Poche parole che riassumono il senso di quella tragedia e il suo valore inestimabile. Nessuna retorica da parte di chi visse direttamente e partecipò a quella vicenda storica che ancora ci interroga e ci chiede che il sacrificio di sette persone e dei loro ideali siano ancora per tutti la nostra bussola oggi, come ieri, come domani.

Con gli occhi aperti sul mondo, sul nostro presente, contro l’indifferenza dei ciechi e sordi, di chi non vuol sapere, di chi ignora volutamente, di chi mente sapendo di mentire.


La vita è una e i martiri di piazza Garibaldi l’hanno persa per noi; non volevano morire, volevano vivere e lottare per un paese libero, più giusto, in pace.


Chi ha fatto scempio dei loro corpi e delle loro vite ha creduto di annientarli e con loro i valori in cui credevano; ma così, al contrario, nemesi della storia, ha dato loro vita per sempre. 

Custodiamola.


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80° anniversario dell’eccidio Piazza Garibaldi – 1

Carlo Ghezzi 
vice Presidente vicario nazionale Anpi

Porto il saluto dell’Anpi alle autorità civili e militari, ai rappresentanti dell’associazionismo resistenziale e combattentistico e a voi tutti che siete qui convenuti. Oggi ci incontriamo per commemorare l’efferata strage del primo settembre del 1944 e per ricordare un terribile contributo pagato da sette antifascisti parmensi impegnati a ridare la libertà e la dignità al nostro paese.  [...]

continua

[...]

Il 31 di agosto del 1944 a Parma dopo che cinque antifascisti erano stati fucilati, tre giovanissimi partigiani avevano teso un agguato a Brenno Monardi, detto Bragone, il gerarca locale del partito fascista, uccidendolo. Questo evento aveva fatto infuriare la Brigata Nera locale che diede il via alla rappresaglia più crudele di cui la città di Parma abbia memoria. 

La notte tra il trentuno agosto e il primo settembre la parabola di violenza culminò nell'uccisione di sette antifascisti, prigionieri da giorni nella sede della Brigata Nera di via Walter Branchi. A lungo Giuseppe Barbieri, Afro Fanfoni, Vincenzo Ferrari, Gedeone Ferrarini, Eleuterio Massari, Ottavio Pattacini e Bruno Vescovi vennero sottoposti a torture indicibili, a violenze bestiali, a sevizie crudeli; vennero infine portati in Piazza Garibaldi e fucilati.

Dopo l’esecuzione i loro corpi vennero lasciati esposti insepolti al sole rovente d’agosto con il divieto di rimuoverli. 


Quei drammatici avvenimenti imitarono l’analoga strage attuata a Milano in Piazza Loreto il 10 agosto delle stesso anno con la fucilazione di 15 antifascisti. Questi obbrobri dovevano rappresentare un orribile monito a coloro che intendevano contrastare la truce Repubblica di Salò e i sui padroni nazisti. Questo è quanto accaduto a Parma nella città che nell’estate del 1922 aveva saputo resiste-re alle squadracce fasciste di Italo Balbo.

Ma a Parma Livia Rosset, la moglie di Eleuterio Massari una delle sette vittime, spinta dal coraggio e dalla disperazione nelle prime ore del mattino si recò a recuperare il corpo ormai irriconoscibile del marito. Sfidando i divieti dell'autorità lo caricò su un carretto e lo riportò a casa attraversando i borghi dell’Oltretorrente intenzionata a dargli una degna sepoltura.

Quella donna, nel momento più terribile della propria esistenza, seppe dimostrare con quel suo atto una straordinaria dignità di fronte all’abominio e all’infamia dei fascisti scrivendo una pagina grondante di dignità che rimane nella storia della Resistenza


Dopo venti mesi nel corso dei quali il movimento resistenziale ha supportato gli alleati Anglo-americani nel contrastare i nazifascisti e dopo uno straordinario tributo di sangue e di dolore che hanno portato alla sconfitta dell’esercito più forte del mondo l’Italia insorgeva e si liberava e la terribile seconda guerra mondiale giungeva al suo termine. Si aprivano nuove speranze per una umanità senza guerre, senza genocidi, senza razzismi.

Noi però non possiamo dimenticare le gravi colpe delle quali si sono macchiati in passato gli Italiani. Non possiamo dimenticare che il fascismo è stato portato in Europa proprio dal nostro paese e che il regime, dopo aver soppresso le libertà democratiche usando la violenza e insinuandosi nelle divisioni tra le forze antifasciste, aveva imprigionato o ucciso i propri avversari politici a partire da Giacomo Matteotti, aveva promulgato le ignobili leggi razziali, aveva promosso sanguinose guerre coloniali connotate da tante stragi perpetrate in Africa e poi in Jugoslavia e infine aveva scatenato il secondo conflitto mondiale a fianco di Hitler trascinando l’Italia nel baratro. 

Non possiamo dimenticare che alla fine del 1942 dopo che Stalingrado aveva resistito all’assedio tedesco e dopo che Rommel era sconfitto in Africa tutta l’Italia comprese che la guerra era persa e si interrogò su come uscire da quella tragedia. Si interrogò l’esercito, la Chiesa, la Corona, l’imprenditoria, gli intellettuali, una parte dello stesso fascismo. Purtroppo si interrogarono in tanti ma non si mosse nessuno. Si mobilitarono solo i lavoratori con i grandi scioperi del marzo 1943 e con quelli ancor più imponenti della primavera del 1944 che impressionarono la grande stampa internazionale che ne scrisse titolando a caratteri cubitali.

I lavoratori diedero con quelle azioni un colpo formidabile al fascismo e a Mussolini disvelandone le debolezze, seppero svolgere una funzione nazionale e seppero prendere nelle loro mani il destino del paese.

Sappiamo quanto assurda sia la descrizione che taluni commentatori ci propongono per denigrare la Resistenza cercando di dipingere una Italia dove vi sarebbero stati pochi fascisti, pochi antifascisti e una massa grigia, inerte, indifferente composta dalla stragrande maggioranza della popolazione. Una area grigia indubbiamente vi è stata, ma la Resistenza fu combattuta da 270.000 partigiani che ebbero più di 60.000 morti, molti dei quali assassinati dopo essere stati sottoposti a indicibili torture.

I partigiani combattenti poterono sopravvivere perché aiutati e sostenuti dalla popolazione civile che permise loro di approvvigionarsi e di nascondersi quando era necessario. Resistenza fu la scelta di una parte importante dell’Esercito italiano di schierarsi con gli Alleati e che fu pagata con terribili massacri come quello di soldati italiani a Cefalonia.

La Resistenza fu sorretta dai 650.000 militari italiani che si trovavano sui diversi fronti all’estero e che vennero internati nei lager tedeschi perché si rifiutarono di andare a servire la Repubblica Sociale di Salò e ben 50.000 di loro vi trovarono la morte. Pensate quanto più sangue sarebbe stato versato dai resistenti e dagli alleati Anglo-Americani se quei soldati avessero fatto una scelta diversa.

La Resistenza fu sostenuta dai numerosissimi comitati del Comitato di Liberazione Nazionale che si formarono nei quartieri e nei paesi del Centro-Nord dell’Italia, fu sostenuta dalla rete dei militanti del Cln operanti nei luoghi di lavoro, dal contributo dato da tante parrocchie; non possiamo dimenticare i 250 sacerdoti deportati e i 210 sacerdoti che vennero fucilati rei di difendere dalla barbarie i loro parrocchiani. 40.000 italiani sono stati deportati e uccisi nei campi di sterminio.

Con la Resistenza erano solidali tantissime famiglie angosciate per i loro cari al fronte a combattere una guerra perduta e coloro che erano stati inviati sotto le armi furono oltre 4 milioni e mezzo. Contro la guerra erano coloro che soffrivano per la mancanza dei generi di prima necessità con i prezzi che salivano alle stelle con una inflazione del 344 per cento in città sottoposte notte dopo notte ai bombardamenti.

Molti lavoratori vennero brutalmente deportati in Germania per alimentare le traballanti capacità produttive della macchina bellica tedesca e molti altri furono colpiti nella fase finale della guerra per la loro scelta di difendere gli impianti industriali, le grandi infrastrutture del paese, i porti, le centrali elettriche, le gallerie e i ponti dalla furia e dalla vendetta dei nazisti in fuga. Resistenza furono il milione di scioperanti del marzo del 1944. Sommiamo questi numeri e ci rendiamo conto di quanta parte del popolo italiano chiedesse la fine della guerra, della occupazione straniera, il ritorno alla democrazia, alla pacifica convivenza civile, ad una maggior giustizia sociale, alla pace.

La Resistenza vittoriosa ha portato il nostro paese alla elezione della Assemblea Costituente varata anche con il voto delle donne che promulgò la Costituzione dove sta scritto al primo punto che “L’Italia è una Repubblica de-mocratica fondata sul lavoro”.

Una Costituzione che va applicata integralmente. Che va difesa dagli attacchi che continua a subire e che va fatta vivere nella sua pienezza e nelle sue potenzialità. 

Quando nel 1945 è terminato il conflitto in Europa i resistenti di tutti i paesi dichiararono solennemente: “mai più guerre, mai più persecuzioni razziali”.

Purtroppo la storia è andata da una altra parte, Guerre e persecuzioni sono apparse in forme e modalità impressionanti e il mondo stenta ad individuare un equilibrio solidale e condiviso nella sicurezza di tutti.

Non possiamo dimenticare che ci sono crimini che moralmente non cadono mai in prescrizione e che vi sono valori imperituri fondanti la nostra civiltà: gli uni e gli altri non potranno essere mai confusi anche se sono trascorsi da allora molti anni.

La pietà vale per tutti coloro che sono morti ma non sarà mai ammissibile porre sullo stesso piano coloro che si sono battuti per la libertà e per la democrazia con coloro che si sono battuti perché prevalesse il nazi-fascismo e i suoi orrori.

Sappiamo che senza memoria del proprio passato, senza coscienza del proprio presente un popolo non va da nessuna parte e rischia di ricadere nei drammi dai quali è faticosamente uscito.

Bisogna invece ricordare, analizzare, capire, far sì che gli errori e gli orrori non si ripetano; anche per questo siamo qui oggi a Parma.


Sono trascorsi tanti anni dalla fine del secondo conflitto bellico mondiale, la nostra società ha fatto indubbiamente tanti passi in avanti ma nuove sfide ci incalzano. 

Oggi è in corso nel mondo un terremoto politico e sociale con l’intrecciarsi della crisi economica con quella pandemica, con quella ambientale, con migrazioni bibliche dalle aree più povere del mondo e con una crisi della democrazia che spinge milioni di persone ad estraniarsi da un percorso partecipativo con il crescere dell’astensionismo che lascia spazio a pulsioni con caratteri eversivi che si mani-festano in Europa come nelle Americhe. 

Il tutto sotto la cappa terribile di una guerra scatenata da Putin nel cuore dell’Europa con l’invasione della Ucraina seguita dall’esplodere della guerra in Medio Oriente.

L'attacco folle e irresponsabile di Hamas contro Israele ha creato orrendi lutti e immani devastazioni e ha innescato una terribile reazione attivata del paese aggredito. 

Condanniamo senza titubanza alcuna l’ignobile e brutale atto di aggressione di Hamas contro la popolazione civile israeliana, contro anziani, bambini e donne in spregio di ogni elementare senso di umanità e di civiltà. Al sangue versato si è aggiunta la barbara pratica della cattura di ostaggi. 

Ma non possiamo negare un senso di angosciante impotenza davanti alla squilibrata risposta del Governo di Israele, alla mattanza che sta avvenendo a Gaza con il massacro di oltre 40.000 persone. Una guerra sanguinosa che bisogna assolutamente fermare. Occorre far cessare i combattimenti e i massacri in corso con l’avvio dell’azione diplomatica che sappia avviare trattative concrete, ricercare un accordo condiviso, una pace giusta per due popoli e due Stati. In tale contesto l'Unione Europea e i suoi Governi appaiono incredibilmente inerti ed avvertiamo la loro palese rinuncia ad avere un proprio autonomo ruolo, una propria capacità di iniziativa.

Gli orrori della seconda guerra mondiale paiono non averci insegnato niente; il sonno della ragione seguita a generare mostri.

Bisogna fermare la guerra, le bombe, i morti, le tragedie.


Dalla piazza di questa città innalziamo le nostre preoccupate voci; lo facciamo noi che siamo gli eredi di coloro che seppero sconfiggere il nazionalismo del fascismo e del nazismo; noi che siamo gli eredi di coloro che in quella terribile stagione si batterono per costruire un mondo di libertà, di giustizia e di pace. Chiediamo atti di responsabilità e di saggezza. 

Il delirio bellicista che sembra dilagare va sconfitto dalla forza tranquilla di paesi e di popoli che sanno che la guerra, oltre a lacrime, sangue e devastazioni porta solo alla sconfitta di tutti come ripete inascoltato Papa Francesco. Occorre rilanciare una politica di convivenza pacifica e con essa rilanciare l’antifascismo e la tolleranza, occorre contrastare il razzismo e la xenofobia, l’antisemitismo e l’anti-islamismo, l’omofobia e il disprezzo per coloro che sono diversi. Siamo allarmati.

Abbiamo bisogno di idealità alte, di riferimenti e di valori forti come li seppero costruire e testimoniare quelle persone che seppero scegliere di schierarsi dalla parte giusta tra il 1943 e il 1945 esprimendo la loro rivolta morale con grande co-raggio. Abbiamo bisogno di rinnovare le loro speranze. Anche i loro sogni. 

Abbiamo bisogno di giovani, di donne e di uomini capaci di indignarsi di fronte alle ingiustizie, alla carenza di democrazia, di libertà, di pace. Ripartiamo allora dalla memoria di coloro che si sono battuti per ridare la libertà a chi c'era, a chi non c'era e per garantirla anche a chi si batteva contro.  

Ripartiamo dalla memoria di quegli uomini e di quelle donne cui dobbiamo moltissimo e davanti a loro inchiniamo le nostre bandiere. 

Viva la fratellanza tra i popoli.
Viva la Resistenza.
Viva la Costituzione italiana.
Viva la Repubblica antifascista.
Viva la pace.


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Modello Valditara

«Condividiamo profondamente le preoccupazioni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione che ha espresso parere negativo sulle nuove Linee guida dell’educazione civica proposte dal ministro Valditara. [...]

continua

[...]

Il Consiglio ha giustamente criticato l’approccio fortemente individualista, l’inserimento dell’educazione finanziaria come mero strumento di valorizzazione e tutela del patrimonio privato, la mancanza di riferimenti espliciti all'educazione contro ogni forma di discriminazione e violenza di genere. Il Ministro aveva presentato il documento dichiarando di ispirarsi “al concetto di scuola costituzionale” in coerenza “con il nostro dettato costituzionale". Non cogliamo tale coerenza. Dobbiamo riprendere lo spirito costituente. Per questo l’educazione civica deve avere lo scopo di promuovere il senso civico e formare cittadini consapevoli, responsabili, critici e informati sui propri diritti e doveri, e deve porre al centro della sua attenzione il valore e la dignità della persona umana, al fine di determinare la formazione di cittadini attivamente coinvolti nella vita della comunità, capaci di contribuire positivamente alla crescita di una società sempre più complessa. Ci auguriamo che il ministro accolga le riflessioni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e apporti le necessarie modifiche alle Linee guida dell’educazione civica per un progetto di società pienamente fondato sulla Costituzione».


Paolo Papotti

Responsabile nazionale formazione ANPI

anpi valditara

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