In occasione della festa della Repubblica ANPI Fontanellato - in collaborazione con FIAB e ludoteca Astambla' - ha svolto la pedalata della memoria Fontanellato-Fidenza.
Dopo aver effettuato sosta presso i cippi dedicati ai partigiani in localita' Casalbarbato, la destinazione è stata in via Baracca a Fidenza a rendere onore ai martiri di quell'eccidio.
Ad accogliere i partecipanti alla pedalata vi erano i militanti di ANPI Fidenza.
Una bella giornata....
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Festa della Repubblica
2 giugno 2023
Nicola Maestri Presidente Comitato Provinciale ANPI Parma
Buongiorno
e buona Festa della Repubblica a tutte e tutti voi.
Sono passati settantasette anni da quando, con il voto nel referendum del 2 giugno 1946, gli italiani, scegliendo la Repubblica, cominciarono a costruire una nuova storia. Quel giorno gli Italiani furono chiamati a scegliere tra monarchia e repubblica attraverso un referendum. Lo stesso giorno si tennero anche le elezioni per nominare i deputati che avrebbero elaborato la nuova Costituzione. Erano le prime libere elezioni dopo più di vent’anni di dittatura fascista, le prime a suffragio universale, perché anche le donne avevano ottenuto il diritto di voto. La partecipazione fu grande e intensa. Il referendum espresse una chiara maggioranza a favore della Repubblica [...]
[...]
Nel testo di Piero Calamandrei si legge che la Costituzione, approvata alla fine del 1947, non fu, come lo Statuto Albertino, una costituzione regia, ma fu una Costituzione popolare, deliberata da un’assemblea rappresentativa eletta dal popolo con metodo rigorosamente democratico.
Per Norberto Bobbio la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà su tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Dietro la libertà civile c’è il riconoscimento dell’uomo come persona, da cui deriva una società giusta in cui non vi è posto per alcun abuso di potere, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la libertà politica vi è l’uguaglianza fondamentale delle persone di fronte al potere politico, per cui non vi sono governanti e governati per destinazione, ma tutti possono essere, di volta in volta, governanti e governati.
Dietro la libertà sociale, vi è il principio che gli uomini contano non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro costituisce la dignità civile dell’uomo ed il contributo che ciascuno può dare secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale.
Vi è però ancora un punto in cui lo spirito della Costituzione è stato continuamente violato: ed è la sopravvivenza del fascismo. Questo marchio d’infamia della storia italiana avrebbe dovuto da tempo essere cancellato. La sopravvivenza del fascismo, di cui abbiamo visto con orrore il volto ottuso e feroce, è contraria non soltanto allo spirito della Costituzione, che è nata dall’antifascismo militante, ma anche alla sua più concreta attuazione. Ciò significa che il nostro Paese non ha ancora fatto definitivamente i conti con il proprio passato e questo è piuttosto evidente.
Ma la Storia ci ha insegnato che quella nuova stagione fu preparata negli anni più bui, dalle donne e dagli uomini che avevano avuto il coraggio di resistere e di lottare. E che avevano iniziato, nello stesso tempo, a pensare a come dar forma all’Italia libera. Da dove ricominciare, per rimettere in piedi un Paese dilaniato, ferito, isolato agli occhi della comunità internazionale.
La giornata dedicata a festeggiare la Repubblica Italiana assume tanti significati diversi: il ricordo della lungimiranza dei nostri padri e delle nostre madri, dei nostri nonni, che ci hanno permesso di vivere in un Paese senza guerre; l'apertura al suffragio universale; la creazione di una democrazia. Poi però, ha segnato anche un nuovo inizio, con l'opera di ricostruzione materiale e morale del Paese. Con impegno e duro lavoro, donne e uomini hanno trasformato l'Italia nel Paese che tutti conosciamo.
La Repubblica da quel 2 giugno a oggi ha camminato tanto. Possiamo farne un bilancio. Possiamo e dobbiamo chiederci a che punto è il nostro cammino.
I più anziani tra i nostri concittadini ricordano bene da dove siamo partiti. Un Paese che era stato trascinato in guerra, ridotto in povertà, senza risorse, con tanti italiani che pativano la fame. Poi le grandi riforme ne hanno cambiato il profilo. La riforma agraria, i piani casa con l’edilizia popolare, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la realizzazione a tempi di record di grandi e decisive opere infrastrutturali, la riforma tributaria, gli interventi per il Mezzogiorno.
E poi la grande stagione delle riforme sociali.
Lo statuto dei lavoratori, le riforme della scuola, in particolare l’istituzione della scuola media unica e l’innalzamento dell’obbligo scolastico, il nuovo diritto di famiglia, l’istituzione, nel 1978, del Servizio sanitario nazionale, ad opera – va sottolineato – di una donna valorosa, la prima a diventare ministra, la staffetta partigiana Tina Anselmi.
Cos’è la Repubblica? Sono sicuramente i suoi principi fondativi. Le sue istituzioni. Le sue leggi, la sua organizzazione. Certo, è tutto questo.
Ma a me sta a cuore, oggi, porre l’accento su ciò che viene prima. Quel che precede il valore e il significato, pur fondamentale, degli ordinamenti. Parlo della vita delle donne e degli uomini di questo nostro Paese. Dei loro valori e dei loro sentimenti. Del loro impegno quotidiano. Della loro laboriosità. Del contributo, grande o piccolo, che ciascuno di loro ha dato a questi settantasette anni di storia comune.
La Repubblica è, prima di tutto, la storia degli italiani e della loro libertà. E’ la storia del lavoro, motore della trasformazione del nostro Paese. E’ la storia della Ricostruzione, delle fatiche, dei sacrifici, spesso delle sofferenze, di tanti che si trasferirono da Sud a Nord, dalle campagne alle città, animando uno straordinario periodo di sviluppo. E’ la storia del formarsi e del crescere di una comunità.
Esiste un brano di Francesco De Gregori in cui dice “la storia siamo noi”, “nessuno si senta escluso”.
Proviamo a leggere così questi settantasette anni di vita repubblicana: da una prospettiva diversa che ci consente di cogliere i profili di soggetti che spesso sono rimasti sullo sfondo. E che invece hanno riempito la scena, colmato vuoti, dato senso e tradotto in atti concreti
parole come dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà. Parole che altrimenti sarebbero rimaste astratte aspirazioni.
Le persone: donne, uomini, giovani che sono state al centro della nostra storia, con la loro voglia di esserci e di contare. Di partecipare. E lo abbiamo visto bene in questi giorni drammatici, lo abbiamo visto tra quelle centinaia, forse migliaia di ragazze e ragazzi che in maniera disinteressata e per amore del prossimo, sono partiti con i badili in spalla per portare aiuto ai nostri fratelli in Romagna, piegati dall'alluvione. Partecipazione civile, politica, sociale. La volontà di cambiare il mondo. Proprio oggi come allora, perché il mondo di prima aveva prodotto la guerra, l’ingiustizia, la fame, le distruzioni. Oggi oltre alle guerre ciò che deve più recarci angoscia è questo devastante cambiamento climatico. Forse siamo ancora in tempo, forse. L’Italia di quel tempo andato è stata ricostruita dalle macerie. La Costituzione ha indicato alla Repubblica la strada da percorrere.
Questa è l’idea fondante della Repubblica, di una Costituzione viva, che si invera ogni giorno nei comportamenti, nelle scelte, nell’assunzione di responsabilità dei suoi cittadini, a tutti i livelli e in qualunque ruolo.
Facciamone tesoro anche per i giorni e gli anni a venire.
Viva la nostra Costituzione, viva l'Italia, viva la Festa della Repubblica !

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i contenuti dei numeri
2 giugno 2023
Paolo Papotti Responsabile Nazionale Formazione ANPI
Non avevamo più una casa. Un popolo non può esistere se non ha una forma che indichi i limiti in cui i rapporti di ciascuno, delle istituzioni, segnano una potestà costituzionale, amministrativa e giuridica. Dove il popolo, cioè, possa sentirsi sicuro. È l’ora del voto, finalmente a suffragio veramente universale. È l’ora dei partiti, piccoli e grandi, rappresentati e rappresentanti. È l’alba della Repubblica. Voci eccezionali per un evento eccezionale, per tempi eccezionali. Ricostruire l’Italia dalle macerie morali e materiali lasciate dal fascismo. Dare nuove basi democratiche allo Stato italiano.
Non solo parole legate ai numeri di una data.[...]
[...]
Uno era il numero di prima. Un capo, un partito, un pensiero. Perché prima la matematica era una opinione… unica, appunto. Quell’uno che voleva essere tutto, che mette il meno dei numeri relativi ai risultati della storia, la cui somma è sempre zero per la dignità del popolo.
Centomila è il numero del sangue, che col suo collettivo RH positivo, in venti mesi ridisegna le condizioni per tornare alla dignità, dalle macerie dello zero negativo della dittatura. Perché senza il venticinque aprile millenovecento quarantacinque, non ci sarebbe stato il due giugno millenovecento quarantasei.
Tutto perché ventotto milioni di italiani potessero indicare la forma dello stato. E poi numeri assoluti, percentuali, proporzioni che rappresentano le volontà di tutti. Un Parlamento che mette il segno positivo davanti la storia.
Cinquecento trentacinque uomini e ventuno donne sommano cinquecento cinquantasei genitori costituenti.
Trecento settantacinque sedute assembleari, settantacinque i membri della commissione, diciotto il comitato di redazione, venti i mesi di lavoro. Un insieme complesso di insiemi che esprimono quattrocento cinquantatré sì e sessantadue no, in libertà che ha sempre il segno più e, da qual momento il segno per… tutti.
Numeri che non chiedono fredde dimostrazioni scientifiche, ma appassionate lucidità umane: uno sta a dittatura, come cinquecento cinquantasei sta a democrazia. Da tre quarti di secolo due, sei, millenovecento quarantasei è un oggi da settantasette anni.
Non solo parole legate ai numeri di una data, ma impegni. Come tutte le eredità, ha bisogno di continuare ad esistere sulle gambe di chi ne ha giovato. Ma soprattutto nella testa, per essere ragionata con lucidità, e nel cuore perché emani passione. Meritiamolo.

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Quel sacerdote che non poteva obbedire
paolo papotti
Il 6 marzo 1965 don Lorenzo Milani pubblicava la lettera sull’obiezione di coscienza, un j’accuse contro il servizio militare obbligatorio, il fascismo, un’idea violenta di patria e tutte le guerre. Unica eccezione, la lotta di Liberazione. [...]

[Il termine laico non si riferisce solo ed esclusivamente al mondo delle professioni religiose. In senso politico e sociale denota la rivendicazione, da parte di un individuo o di una entità collettiva, dell’autonomia decisionale rispetto a ogni condizionamento ideologico, morale o religioso altrui. La laicità rifiuta, pertanto, qualunque forma (palese od occulta) di imposizione dogmatica e la pretesa di determinare le proprie scelte morali ed etiche al di fuori di una critica o un dibattito.
Non si confonda laico con ateo. Tale confusione è generata dalla superficialità, dalla volontà di dare spiegazioni alla pancia anziché al cervello, di fare in modo, dunque, di lasciare il distratto interlocutore nell’ignoranza. Diversi e tanti, purtroppo, gli esempi. In modo particolare una parte della politica degli ultimi anni ha proposto rosari, elenchi di santi o preghiere in tv contribuendo – oltre ad un abuso-sopruso improprio e di mercimonio della fede a scopi propagandistici – a una mistificazione che, oltre a sancire la presunta “giusta umanità” di chi professa la sua fede in pubblico, fa suonare laico come anticlericale o ateo, generandone disprezzo.
In politica, nella cultura, nelle fedi, ci sono esempi di persone che hanno inteso il termine laico come scelta secondo coscienza, accettando e affrontando le conseguenze. Nel libro di Lorenzo Tibaldo, Il pensiero resistente. L’obbedienza non è (sempre) una virtù, ho già tratteggiato il significato di uomini e donne che hanno mantenuto alta, fino alla morte, la loro autonomia di pensiero, la loro laicità rispetto a condizionamenti, pur appartenendo saldamente a un ideale. Il sottotitolo, con una “licenza” rispetto alla frase originale di don Lorenzo Milani, suggerisce la figura di un sacerdote che visse, e morì, con una concezione alta della propria dignità di uomo e di sacerdote.
Negli anni della sua attività, non venne certamente digerito dai conservatori e dalle destre perché considerato “cattocomunista”, fu “incompreso”, mal visto negli ambienti cattolici, che preferirono “allontanarlo”, inviso alle istituzioni a cui quali si permetteva di dare indicazioni, venne distrattamente ascoltato dai progressisti perché li superava a sinistra.
Se una persona non va bene a nessuno, è sicuramente in difetto… oppure c’è dell’altro?
Don Lorenzo Milani non è un prete convenzionale. È un sacerdote che sceglie la cultura e l’educazione universale, laiche, per tutti. Nell’ottobre 1947 è cappellano a San Donato a Calenzano, Comune operaio in provincia di Firenze. In quel contesto nasce la Scuola Popolare, dove don Milani vuole che nessuno si senta escluso a priori.
Capisce che chi non ha la possibilità di leggere un giornale o un contratto di lavoro non è in grado di difendersi dallo sfruttamento, né di elaborare un pensiero critico. Si rende conto che senza istruzione l’orizzonte della vita umana si riduce alla conquista di un piatto di minestra da consumare velocemente la sera, per poi andare a letto e ricominciare a piegare la schiena il giorno dopo. In quelle condizioni, anche l’ascolto dei testi sacri durante le messe rischia di diventare un rito di cui non si comprende il significato. A contatto con la povertà e con lo sfruttamento – elaborando le opportunità in cui è cresciuto e la miseria materiale e intellettuale in cui versa il popolo che gli è stato affidato – matura una profonda coscienza sociale e prende posizione pubblicamente. Cominciano le incomprensioni con la gerarchia ecclesiale, che vede in quelle idee un pericolo e non un invito accorato al ritorno al Vangelo.
Don Milani viene mandato in una pieve sul monte dei Giovi in Mugello. Barbiana nel dicembre 1947 è una povera canonica, qualche cipresso, un piccolo cimitero, poche famiglie in case sparse. A Barbiana si sale da una mulattiera, non c’è acqua corrente, né gas, né luce, vi vivono pastori e contadini che faticosamente strappano dal bosco e dalla terra i frutti per vivere. Il religioso capisce subito che i figli di quel popolo sparso, se il pomeriggio vanno a lavorare nei campi o devono badare agli animali, sono destinati a uscire prematuramente dalla scuola di Stato. Senza saper né leggere né scrivere; defraudati, se non nella forma nella sostanza, del loro diritto all’istruzione. Scartati già da piccoli, costretti a delegare in tutto, incapaci di aver voce come persone, come cittadini, e anche come cristiani.
Don Milani a Barbiana
La scuola di Barbiana comincia con un doposcuola, prestissimo diventa avviamento professionale e, nel 1963, corso di recupero per la media unificata. Nella scuola di Barbiana tutto è occasione di apprendimento. Don Milani accoglie i diseredati, quelli senza un’alternativa. L’esperienza educativa di Barbiana sviluppa anche un modello avanzato di autonomia, arrivando persino a mandare i ragazzi da soli all’estero a studiare le lingue.
Gli scritti di don Lorenzo Milani sono espliciti quanto difficili da digerire in quegli anni. Esperienze pastorali, del 1958, è la sintesi dell’esperienza vissuta dal sacerdote. Una riflessione sociologica e razionale sulle condizioni delle comunità in cui opera, sul ruolo del parroco in contesti di povertà materiale e intellettuale. L’esprimersi in modo diretto, infastidisce molti. Poco dopo la pubblicazione, il libro viene ritirato dal Sant’Uffizio.
Con Lettera ad una professoressa del 1967, poco prima della morte, propone una provocatoria disamina sulla scuola pubblica dell’obbligo di quegli anni, incapace di colmare, secondo Costituzione, gli svantaggi iniziali di chi nasce in una casa povera di cultura e di economia. Diverrà uno dei testi di riferimento del movimento studentesco sessantottino.
Poco meno di due anni prima, il 6 marzo 1965, don Milani aveva diffuso un suo scritto in difesa dell’obiezione di coscienza alle Forze Armate. Era una sorta di risposta alla pubblicazione di un documento con cui i cappellani militari della Toscana dichiaravano di considerare “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. Don Milani, con una lunga lettera pubblicata su Rinascita il settimanale del Partito comunista, sostiene la difesa dell’obiezione di coscienza contro l’obbedienza cieca. In modo perentorio e definitivo sostiene che l’obbedienza non è più una virtù.
Con linguaggio schietto e diretto, con precisione e puntualità, subito preannuncia tono e argomenti, rivolgendosi direttamente ai cappellani militari: “Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare coi miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi ed io non capiamo. […] Non posso fare a meno di farvi quelle domande pubblicamente. Primo, perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. Secondo, perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi”.
Già da questo incipit, si denota il suo modo di essere: non parla solo per sé, ma anche per quelli che rappresenta e coi quali, sicuramente, si è confrontato, cioè i giovani. In merito a una possibile risposta che i sacerdoti avrebbero potuto inviargli, don Milani scrive: “l’opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi […]. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti”.
Don Lorenzo Milani dunque si muove d’anticipo: usare l’insulto come argomento è uno stratagemma per nascondere poche e superficiali argomentazioni.
Poi entra nel merito della parola Patria, argomentando: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dico che, nel vostro senso io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri” […]. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
A questo punto don Milani scaglia, con umana passione, fermezza valoriale e salda appartenenza la sua arringa a favore dell’obiezione di coscienza. “Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, quando scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione”.
Parte dal significato degli articoli 11 e 52 della Costituzione, metro di misura per giudicare le guerre dall’Unità d’Italia al secondo conflitto mondiale e soprattutto concentrandosi sul significato di difesa della patria quando si invade un altro Paese, inserendo, nell’analisi, il ruolo dei sacerdoti nei confronti dell’esercito. “Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati”. Per rafforzare il suo pensiero elenca “il risultato delle azioni per la “Patria”: bombardamenti, uccisione di civili, rappresaglie nei villaggi inermi, le esecuzioni sommarie, l’uso di armi batteriologiche, chimiche, la tortura, i processi sommari, la repressione di manifestazioni popolari.
Il tono della lettera aumenta parallelamente al contenuto che sviluppa. Difesa della Patria e il ruolo dei sacerdoti nei confronti dell’esercito esprimono accenti sempre più umanamente accesi e coerentemente efficaci, mai offensivi ma certamente schietti.
1922, marcia su Roma. I roghi degli squadristi
“Era nel 1922 che bisognava difendere la Patria aggredita”. Inizia così, puntuale, precisa e spietata, la disamina della dittatura fascista. “Ma l’esercito non la difese. Stette a rispettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza, invece che con l’Obbedienza cieca, pronta, assoluta quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo”.
Non risparmia l’ignominia della guerra in Spagna: “Nel 1936 cinquantamila soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: andare volontari ad aggredire l’infelice popolo spagnolo. Erano corsi in aiuto di un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo di un milione e mezzo di morti riuscì ad ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa” […]. “Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro non si deve obbedire?”.
1941, Truppe italiane ad Atene
Il secondo conflitto mondiale è l’occasione per una disamina politica sui sistemi di governo del tempo. “I soldati italiani aggredirono uno dopo l’altra altre Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data”. Con lucidità tratta la dignità umana sia da religioso, sia da laico e continua: “l’uno (sistema democratico, ndr), rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri. L’altro (il sistema socialista, ndr), il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri. Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione di ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d’ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli Ebrei. Cosa c’entrava la Patria con tutto questo?” Quindi si rivolge ai sacerdoti che restando fermi sull’obbedienza, “fecero un male immenso proprio alla Patria e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche alla Chiesa”.
Una brigata partigiana
Conclude l’analisi sulle guerre, sollevando un’eccezione: la lotta di Liberazione dal nazifascismo: “Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra ‘giusta’ (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato”.
La lettera si avvia alla fine. “Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dell’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un distinguo che vi riallacci alla parola di San Pietro: si deve obbedire agli uomini o a Dio?”.
L’ultimo messaggio è rivolto ai giovani, esortando i sacerdoti a professare la verità: “ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima”.
La visione laica di don Lorenzo Milani e la sua concretezza abbracciano una idea universale di democrazia, indipendentemente dalle singole appartenenze, che raccoglie le esperienze umane, sociali, storiche e culturali che caratterizzano l’umanesimo, riferimento universale per i valori di democrazia e libertà.
Una risposta arriva. Don Milani è denunciato da “un gruppo di ex combattenti”; viene processato per apologia di reato e assolto in primo grado il 15 febbraio 1966. Muore prima della sentenza di appello del 28 ottobre 1967, che dichiara il reato estinto per morte del reo. Ingiusto, in tutti i sensi, umano e giuridico.
Don Milani e alcuni dei suoi ragazzi
Qualche riflessione finale. Don Milani coi suoi scritti turba le coscienze di tutti e non solo a chi si rivolge direttamente. Produrre riflessione critica è il suo intento. Quando questi elementi precorrono i tempi, le parole diventano profetiche tanto quanto non comprese. Davanti a don Milani, che non a caso usa la formula della lettera, c’è sempre un uomo a cui riferirsi. Una persona in carne ed ossa, un qui ed ora a cui rivolgersi. La forza delle parole di don Milani è quella di ragionare nel concreto, per arrivare ai principi. Ciò basta per considerarlo una esperienza, un esempio di vita vissuta, concreta. Di quelle esperienze che, dietro le parole, praticano il lavoro quotidiano senza pensare al bagliore delle luci della ribalta. Don Milani non aveva bisogno di diventare altro, per essere credibile; non aveva bisogno di altri luoghi per professare la sua fede e le sue idee; non aveva bisogno di agganciarsi ad altre appartenenze per essere creduto; non aveva bisogno di solidarietà altre e interessate, per essere compreso; non aveva bisogno di apparire né per tornaconto suo, né per opportunità altre e di altri.
Non è un azzardo, dunque, associare il pensiero del sacerdote don Lorenzo Milani ad un pensiero laico. Il termine laico, dunque, assume caratteristica di forza della ragione che non è mitigare o mortificare le proprie idee, anzi, averne una consapevolezza tale da renderle universali. Quella forza della ragione che è appartenenza chiara, esplicita ed esplicitata e, in virtù di questo, combatte perché i valori insiti in quella appartenenza, vengano davvero realizzati.
Un atteggiamento laico è, in questo senso, non dover limitare la propria libertà secondo gli ammaestramenti dell’autorità di qualsiasi credo. Perché le convinzioni sono talmente profonde, da non temere di essere libero.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: a chi appartiene oggi il pensiero di don Milani? Domanda sbagliata. Le esperienze sono utili per definizione, soprattutto quando sono tangibili e rimangono esempi universali, per tutti. Non perdiamo altro tempo.
Dopo cinquant’anni, il 20 giugno 2017, Francesco è il primo papa della storia a pregare sulla tomba del sacerdote. “Un bravo prete da cui prendere esempio”, le parole pronunciate quel giorno da Bergoglio. Ci voleva Francesco per capire Lorenzo.
Bibliografia
articolo di Elisa Chiari su Famiglia Cristiana del 25 giugno 2017
“L’obbedienza non è più una virtù”, don Giuseppe Milani, 1965
“Don Lorenzo Milani. Riflessioni e testimonianze”, Gruppo ex allievi don Milani, 1997
“Tra parola e conflitto. La comunicazione in Don Lorenzo Milani”, Mauro Bortone, 2008.
1° Maggio, la festa del… dopolavoro. Fascista
paolo papotti
L’Opera Nazionale Dopolavoro. Come il fascismo totalizzò, parola di conio mussoliniano, anche il tempo libero. Fin dagli esordi il regime offrì gite, manifestazioni sportive e visite culturali soprattutto alle fasce più povere della popolazione. Che si rivelarono ottime occasioni di controllo, capillare. Perché scopo dell’OND era esaltare la missione nazionale di un nuovo tipo d’uomo, destinato a guidare l’Italia a nuovi fasti imperiali. Sappiamo come finì [...]
Venerdì 1° maggio 1925, gli italiani riempiono le piazze, celebrano una festa. Lo fanno dal 1890, come nelle Americhe e in Europa, e pure in Asia e in Australia. Bello! Un abbraccio mondiale di uomini e donne che vogliono determinare il proprio futuro. È la Festa dei Lavoratori, giusto? No, scusate. Ho sbagliato festa e luogo, anzi era solo un sogno.
L’Italia del 1925, del 1° maggio 1925, non è quella descritta sopra. Festa dei Lavoratori? Che senso ha, ma soprattutto, chi rappresenta questo grande afflato di unità dei lavoratori a livello mondiale, visto che in Italia c’è già chi pensa a tutto? Nel famigerato discorso alla Camera dei deputati del 3 gennaio 1925, Mussolini aveva concluso: “L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa……Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario…”.
Un passo indietro. È il 26 febbraio 1923, data in cui viene consacrata la fusione tra il Partito Nazionale Fascista e l’Associazione Nazionalista Italiana, che esprimeva come membri Luigi Federzoni, Costanzo Ciano (padre di Galeazzo, futuro genero del duce) e il giurista Alfredo Rocco, colui che scriverà il nuovo codice penale. Nel documento che sancisce l’alleanza, i rappresentanti delle due forze politiche stabiliscono di celebrare l’accordo unitario con l’approvazione di un manifesto, contenente l’appello all’unità nazionale da affiggere in tutte le città italiane nella serata del 20 aprile, vigilia del Natale di Roma, giorno “significante l’avvenuta rinascita della romana grandezza”.
Poco più di un mese dopo, con “italica tempestività”, il 19 marzo 1923 viene approvato dal Consiglio dei ministri il Regio decreto-legge n. 833 (in GU il 20 aprile), proposto dal presidente Benito Mussolini, che abolisce la festività del 1° maggio e fissa la celebrazione del Lavoro al 21 aprile, Natale di Roma. È la prima celebrazione istituita dal primo governo Mussolini che, a partire dal 21 aprile 1924, diviene festività nazionale e denominata “Natale di Roma – Festa del lavoro”. Così, abolendo il 1° Maggio come Festa internazionale, si fa della ricorrenza dei lavoratori una festa nazionalista. Si nazionalizza il lavoro, si irregimentano i lavoratori. Del resto, al governo della nazione c’è il duce del fascismo, non si può pretendere che abbia sensibilità internazionaliste, il socialismo se lo è lasciato alle spalle e fin dal biennio nero è diventato un nemico. …Come direbbe un forlivese: “ma dai su… non scherziamo…”.
Tuttavia, nell’Italia “proletaria e fascista”, il 1° maggio 1925 ha il suo significato. Ma lontano dalle piazze, è negli uffici. Dal momento che non si celebra la Festa dei Lavoratori, il 1° maggio è un normale giorno feriale. Infatti, con Regio decreto-legge n. 582 del 1° maggio 1925, viene istituita l’Opera Nazionale Dopolavoro, allo scopo di promuovere la costituzione e il coordinamento di istituzioni atte a elevare fisicamente e spiritualmente i lavoratori intellettuali e manuali nelle ore libere dal lavoro. Per definizione statutaria l’OND deve curare “l’elevazione morale e fisica del popolo, attraverso lo sport, l’escursionismo, il turismo, l’educazione artistica, la cultura popolare, l’assistenza sociale, igienica, sanitaria, ed il perfezionamento professionale”.
Una gita a Littoria, di un gruppo dell’Opera Nazionale Dopolavoro, è del marzo 1933, XII dell’era fascista
Lo scopo primo dell’OND è inizialmente limitato alla formazione di comitati provinciali a sostegno delle attività ricreative. Le attività dei vari circoli sono indirizzate alla realizzazione di un programma uniforme: istruzione alla cultura fascista e alla formazione professionale; educazione fisica attraverso sport e la promozione del turismo; educazione artistica attraverso teatro, musica, cinema, radio e folklore. Alla fine degli anni Venti viene inoltre messo a punto un programma ricreativo femminile, che implica un accurato addestramento per “l’elevazione morale” delle donne nella società fascista, e corsi di pronto soccorso, igiene ed economia domestica.
L’Opera Nazionale Dopolavoro è un’organizzazione popolare, e si rivela capace di coinvolgere vasti strati della società italiana grazie alle innumerevoli iniziative introdotte. È chiaro che l’OND produce consenso, soprattutto in un popolo che scopre e realizza nuove opportunità, come mai prima. L’OND, cioè, realizza servizi reali e concreti alla popolazione. Basta vedere le diverse foto che ritraggono le gite, le organizzazioni sportive, le bande musicali e tutte le iniziative che permettono ai lavoratori e alle loro famiglie la costruzione di uno spazio nuovo, una sorta di protagonismo.
Il primo intervento strutturale del governo fascista, in tema di lavoro, si innesta nelle tematiche sociali del lavoro, ovvero, le opportunità di crescita dei lavoratori. Quasi a dimostrare al popolo italiano che, dal punto di vista delle politiche interne, le azioni si rifanno a una idea di società progressista, a favore del popolo e per il popolo attraverso l’elevazione dei lavoratori.
Per realizzare questi propositi l’OND è dotata di una struttura salda, anzi, saldissima sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista organizzativo. Dal punto di vista economico e finanziario, l’OND ha personalità giuridica e può ricevere e amministrare contributi, lasciti, oblazioni, donazioni di qualsiasi natura o valore, acquistare e possedere beni, alienare beni di sua proprietà, compiere tutti gli atti giuridici necessari al compimento del suo scopo. Tutti gli atti relativi alle manifestazioni dell’OND sono esenti da imposte e tasse perché è riconosciuto il carattere di utilità pubblica. Il patrimonio dell’ente è costituito da beni mobili e immobili provenienti da associazioni, enti e istituti. Dal punto di vista organizzativo, per l’attuazione degli scopi, l’organigramma prevede: una Direzione generale, i Dopolavoro provinciali (presieduti dai segretari delle Federazioni dei fasci di combattimento) e i Dopolavoro comunali, rionali, aziendali.
A questo punto è necessario la domanda: cosa c’è dentro alle belle scatole? Tra il 1927 e il 1939 l’OND diviene strumento del partito fascista che “vigila” sull’organizzazione del tempo libero. Ovvero, organizza il tempo libero dei lavoratori. Ovvero, attua una politica di controllo attraverso un’azione specifica.
Da una parte l’azione organizzativa: unifica e assorbe tutte le associazioni culturali e sportive sorte prima dell’affermazione del regime fascista. Dunque, uno strumento di penetrazione politica fra le masse che, attraverso le partecipazioni alle iniziative, tendono sempre meno a contestare il regime. Sarà varata successivamente, il 26 novembre 1925, la legge n. 2029 che predispone una mappatura dell’associazionismo politico e sindacale operante nel Regno. Con questa legge, tutti i corpi collettivi operanti in Italia (associazioni, istituti, enti), su richiesta dell’autorità di Pubblica Sicurezza, hanno l’obbligo di consegnare statuti (cioè che cosa è e che cosa fa l’associazione), atti costitutivi (cioè nomi, cognomi e indirizzi dei soci fondatori), regolamenti interni (cioè come funziona l’associazione), elenchi di soci e di dirigenti (cioè nomi cognomi e indirizzi di tutti i soci). Coincidenze?
Pertini lavatore di taxi a Parigi (1926), e muratore e comparsa Paramount a Nizza (1927 e 1928) durante l’esilio in Francia
Dall’altra parte c’è l’azione del partito: è presieduta dal segretario del partito nazionale fascista, ed è posta alle dirette dipendenze del capo del governo, cioè Mussolini. Per onestà bisogna considerare la capacità del regime, non le colpe dei lavoratori e degli italiani in genere, per la costruzione del consenso. Perché è riconoscendo questo, che eleviamo in grandezza tutti gli antifascisti che hanno continuato a opporsi, magari pagando con le botte, la galera o la morte. Uno su tutti: il 22 maggio 1925 Alessandro Pertini subisce il primo arresto per attività antifascista.
La Milizia volontaria per la sicurezza nazionale era nata nel 1923
Un inciso, non da poco. S. E. Cav. Benito Mussolini, nel 1925 detiene le seguenti cariche: due ruoli politici, Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri; un ruolo nel partito, Duce del fascismo; un ruolo militare, a lui risponde la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, (ricordo che la “milizia” è un corpo armato del partito, riconosciuto per legge dal primo governo Mussolini e pagato dalla Stato…); il governo di un Ente Pubblico, a lui fa riferimento l’Opera Nazionale Dopolavoro.
Possibile che non sia mai venuto un dubbio al Capo dello Stato, cioè a S. A. R. Vittorio Emanuele III? Se ha chiesto chiarimenti, gli saranno bastati? Perché non è intervenuto? Il risultato è la firma di tutte le successive leggi “fascistissime”. Troppo spesso ci scordiamo le responsabilità di Casa Savoia.
La società italiana durante il fascismo comincia a essere guidata, a partire dal 3 gennaio 1925, da un regime che ha tra i suoi scopi quello di mutare il modo d’essere e comportarsi degli italiani, in definitiva il loro stile di vita, per uniformarli al modello sociale ed etico dettato dall’ideologia fascista. La propaganda del regime propugna la conformazione a ideali quali nazionalismo, patriottismo, militarismo, l’eroismo l’esaltazione della civiltà romana. Il fascismo si vuole presentare come l’alternativa a capitalismo e socialismo. Obiettivo finale: la creazione di un nuovo tipo d’uomo, destinato, negli auspici del regime, a guidare l’Italia e Roma a nuovi fasti imperiali. L’OND si inserisce a pieno titolo in questo progetto.
Conclusione. Nel 1925 Paolo Belfiore, che ancora può usare il nome d’arte anglofono Paul Bernard, ci ride sopra con un brano umoristico a evidente doppio senso erotico: “In riva al Po…”. Poco elegante brano da macchietta che, nella metafora degli eventi narrati, invita a stare attenti a quello che può succedere nei pressi dei fiumi. Distratti da facili conquiste, si può essere travolti da una improvvisa “piena nera” che, incontrollata, avanza fino a una esondazione disastrosa, per tutti.
Conclusione bis.
La Festa dei Lavoratori fu riportata al 1° maggio dopo la fine della Seconda guerra mondiale, rirendendo lo status festivo. Un giorno di festa che ci ricorda quanto ancora c’è da conquistare e da migliorare per rendere effettiva la condizione che permette ad ogni cittadino di concorrere al progresso materiale o spirituale della società.
Il 1° maggio ci sono lavori che non si fermano, per la peculiarità specifica di quel lavoro: servizi alla persona, trasporti, chi fa turni nelle aziende, chi si occupa di sicurezza, in ambito culturale, nei settori turistici e così via fino ai politici. “Mestiere” complesso quello della politica, di fatto si è sempre “in servizio”. Un “mestiere” che, a differenza di altri, si sceglie di fare e lo si realizza per volontà popolare. Per questo può non stupire, anzi, può rappresentare un segno di vicinanza ai lavoratori, un Consiglio dei Ministri la mattina del Primo Maggio. A Palazzo Chigi l’odg aveva, fra l’altro, “un decreto-legge con misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro”. Rappresentare il popolo, per chi fa il “mestiere” della politica, comporta certamente il suo portato di priorità e responsabilità. Fra queste, si potrebbe suggerire, quella di stare dove è il popolo, per esempio nelle piazze del 1° Maggio. Emanare decreti-legge il 30 aprile o il 2 maggio, ne avrebbe ridotto il significato? Sicuramente no. Ma stare negli uffici, il 1° maggio, per chi vuole rappresentare il popolo, può far pensare a una volontà o a un tentativo di svilire la festa. Deviare dal significato, se fossimo a scuola, sarebbe un errore di concetto, cioè un errore grave. Le piazze di lavoratori daranno la loro risposta, così come è successo per i democratici e gli antifascisti il 25 Aprile.