Archivi del mese: Dicembre 2023

Come ripensare alla vicenda dei fratelli Cervi?

Gianfranco Pagliarulo Presidente Nazionale ANPI

Oggi tira aria di autoritarismo: come ripensare alla vicenda dei fratelli Cervi? Sui fratelli Cervi c’è oramai una sterminata letteratura. Certo, si tratta di un evento simbolico anche a causa dell’unicità della vicenda: sette fratelli, tutti i maschi, prima arrestati da un plotone della Guardia Nazionale Repubblicana, in sostanza i fascisti di Salò, poi fucilati per rappresaglia, assieme all’amico fieramente antifascista Quarto Camurri, il 28 dicembre 1943. Esattamente ottant’anni fa. [...]
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Ed è un evento simbolico non solo la loro morte, ma anche la loro vita. Erano portatori col padre di una cultura contadina libertaria e insofferente al pregiudizio e all’oscurantismo, frutto di una interessante commistione fra una originaria formazione cattolica e la successiva energia del pensiero marxista e in generale socialista. La famiglia era una comunità coesa e aperta, con le sorelle, le mogli, i figli, il padre Alcide e la madre Genoeffa. Diversamente dalla grande maggioranza degli altri contadini, non solo sapevano leggere e scrivere, ma costituirono nel loro casale una vera e propria biblioteca clandestina di testi di saggistica, letteratura, scienza e tecnica. Fu grazie a quelle letture che trasformarono il loro campo difficile in una terra feconda, aiutati da un trattore, mezzo di lavoro non frequente in quei tempi e in quei luoghi; un trattore che, assieme al mappamondo, fa parte integrante del mito dei fratelli Cervi. Erano antifascisti, a cominciare da Aldo, il più autorevole dei fratelli, comunista, come sottolineato dal figlio Adelmo in polemica contro i tentativi di cancellazione e di rimozione persino delle idee di Aldo. La loro abitazione si era di fatto trasformata in un cenacolo permanente di oppositori al regime. Tutto ciò spiega il mito resistenziale dei sette fratelli: l’anticonformismo, il fascino per lo studio, l’attenzione verso la modernità, lo spirito comunitario, la visione internazionalista, l’enormità della loro fucilazione. Un mito la cui eco si coglie nei versi di Quasimodo: “Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore, non per memoria, ma per i giorni che strisciano tardi di storia, rapidi di macchie di sangue”. 80 anni dopo c’è da chiedersi come si può interpretare la loro vicenda e il loro sacrificio al tempo della retorica sull’italianità, sul destino, sulla “Nazione”, quando si torna a pronunciare senza vergogna il motto “Dio, patria e famiglia”, improvvidamente scippato dal fascismo all’incolpevole Mazzini, quando la presidente del Consiglio, normalmente loquace, in un anno di governo non ha mai pronunciato la parola “antifascismo”, quando il presidente del Senato afferma di non averla mai letta sulla Costituzione. Tira aria – diciamolo – di autoritarismo mettendo assieme i tasselli del puzzle: premierato, autonomia differenziata, decreto anti-rave, decreto Cutro, decreto Caivano, pacchetto sicurezza, abolizione del reddito di cittadinanza, contrasto al salario minimo, attacco al diritto di sciopero, cariche della polizia e persino identificazione di chi si permette di gridare “Viva l’Italia antifascista!”. Ebbene, proprio oggi, in questo tempo di guerre e di autoritarismi, ci serve più che mai l’apparato biografico di Aldo, dei fratelli, dei genitori. Ci serve il loro andare in direzione ostinata e contraria ad ogni oscurantismo, la loro attenzione alla modernità, la passione per la lettura e per la cultura, il loro essere e fare comunità. C’è in quelle biografie un’idea di libertà, eguaglianza e pace e una pratica di sfida aperta al potere fascista. Ci servono, simbolicamente, i libri, il trattore, il mappamondo, per sfuggire alla trappola della banalizzazione della realtà, per riconoscerne la complessità, per sfuggire alla logica binaria dell’amico/nemico, per fondare una visione del mondo e un possibile orizzonte di cambiamento che metta al centro l’umanità, per mantenere irremovibile il legame fra libertà ed eguaglianza, per costruire una moderna cultura antifascista alimentata dal testo costituzionale e dalle sue origini ideali, e cioè dalla Resistenza. C’è sempre un’idea di futuro nella tragedia dei Cervi, persino nelle note parole di Alcide: “dopo un raccolto ne viene un altro”. E mi pare che una delle ragioni del mito sia proprio questa: nulla rimane uguale, tutto cambia, e non esiste nessun destino prescritto, nessun fatalismo, persino davanti ad un sacrificio supremo, come la fucilazione di sette fratelli. Dipende dalle persone in carne ed ossa, dalle donne e dagli uomini viventi. Se dopo ogni notte sorge l’alba, se dopo ogni risacca ritorna l’onda, allora dopo ogni resistenza ci sarà una liberazione.

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Comitato Provinciale 16.12.2023

Analisi politica di Nicola Maestri Presidente Comitato Provinciale ANPI Parma

Buongiorno a tutte e tutti voi e benvenuti a questo Comitato Provinciale che ha l'ambizione di focalizzare i suoi sforzi sulla situazione politica preoccupante che va profilandosi. Il contesto internazionale vede un’angosciante recrudescenza del conflitto israelo palestinese. ANPI ha fermamente condannato i vili attacchi compiuti da Hamas sulla popolazione civile israeliana, perché di questo si è trattato. Ma come non evidenziare la reazione scomposta, abnorme e disumana che l'esercito israeliano sta compiendo quotidianamente sulla striscia di Gaza e sul popolo palestinese, che da anni subisce una ghettizzazione e una restrizione sempre più stringente delle più elementari basi di sopravvivenza. I morti sulla popolazione civile hanno superato le quindicimila unità. È notizia ormai di dominio pubblico che in questo micidiale territorio i bambini e non solo loro, stiano morendo di fame. Tutto ciò è sconvolgente. Avrete notato che di fatto, questo nuovo inasprirsi del conflitto mediorientale ha derubricato totalmente la guerra in Ucraina. [...]

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Ritengo che su questi metodi così creativi e disinvolti da parte di chi gestisce l'informazione dovremmo fare una seria riflessione. Nei giorni scorsi ho avuto l'opportunità di essere presente al teatro al Parco al monologo di Roberto Saviano.  La serata verteva sull'utilizzo dei podcast, l'uso delle parole e l'informazione “drogata” cui siamo costretti a subire. Il nocciolo della questione è proprio questo; viviamo in un'epoca in cui la propaganda arriva prima della notizia, ragion per cui tale notizia, anziché arrivare asciutta e scevra da pre confezionamenti viene data in pasto al consumatore finale deformata e indirizzata già in un determinato modo. Questo è un enorme problema, perché una buona fetta di popolazione anziché differenziare, selezionare e approfondire, si accontenta dell'informazione main stream e ciò che passa il convento è questo. Per cui la guerra in Ucraina, che procede imperterrita con il suo carico di morte e distruzione, viene relegata come quinta, sesta notizia, o addirittura cancellata dai palinsesti televisivi e dalla carta stampata, mentre si è discusso per settimane del ciuffo di Gianbruno, piuttosto che condannare il comportamento di questo signore. Purtroppo è con queste gravi lacune informative che dobbiamo misurarci, ma al tempo stesso occorre sfruttare ogni pertugio democratico per rilanciare il nostro operato e fare in modo di far giungere alla più vasta platea quello che è il pensiero della nostra Associazione. Senza nessun dubbio viviamo un periodo difficile della vita democratica. Non era mai successo in tempi recenti che si mettesse in discussione il diritto di scioperare. Ma oggi assistiamo anche a questo grave affronto che crea un precedente molto pericoloso. L'articolo 40 della Costituzione dice che il diritto di sciopero è un diritto individuale, che può essere esercitato soltanto in forma collettiva. L'articolo 40 riconosce dunque il diritto allo sciopero. 

È piuttosto evidente che c'è una parte cospicua di questa compagine governativa che non perde occasione per cercare di sgretolare i diritti conquistati negli anni e ciò deve preoccuparci. Un esempio tangibile è la “riforma” costituzionale approvata dal Governo Meloni. Temo sia stata progettata per assestare la spallata finale al progetto politico della Costituzione. È la rancorosa vendetta di un manipolo di reduci ideologici del fascismo contro lo spirito del 1948: il tentativo di liquidare l’impianto partecipativo che, enunciato nell’articolo 3, permea tutta la Carta. Fuori i cittadini dai piedi del potere: in un clamoroso ritorno al rapporto diretto tra il capo e la folla che, ogni cinque anni, lo elegge. È la riduzione dell’aula parlamentare, vista ancora come sorda e grigia, a un bivacco di manipoli: i manipoli di chi, magari con il 20% dei voti o nemmeno, se ne prenderà il 55%, rendendola semplicemente inutile. Una claque del capo.

Non intendo arrivare a conclusioni affrettate ma trovo questa riforma inutile, con le dovute cautele un po' come i consigli comunali e quelli regionali svuotati dalle leggi presidenzialiste che hanno aperto la breccia culturale da cui sono passate tutte le tentate riforme che volevano, e ora di nuovo vogliono, il “sindaco d’Italia”. È in questi perversi meccanismi locali, oltre che nella parentesi nazionale (presto chiusa) dello Stato di Israele, che si trovano i veri antecedenti di questa mostruosa idea del premierato elettivo. Perché è questo che va detto: non è presidenzialismo, è un mostruoso “capismo”. Tornano folgorantemente attuali le parole di Lorenza Carlassare, la giurista scomparsa lo scorso anno: «il presidenzialismo all’americana in Italia non lo vogliono, perché i poteri del presidente sono davvero limitati dal Parlamento e dal potere giurisdizionale, e allora vedono l’idea del semi-presidenzialismo, come un filone che può portare la concentrazione dei poteri in una persona sola. Questa è l’aspirazione». Un’aspirazione aggiungo, che qua, nel progetto dell’unico governo occidentale guidato da un partito di matrice fascista, si fa scoperta e anzi sfacciata nella formula del premier eletto: sarebbe un unicum mondiale. 

Nei suoi “appunti di Giorgia” (un abominio che ancora una volta solo la sfasciata informazione italiana poteva tollerare) la (anzi, il, virilissimo) presidente del Consiglio si aggira nella stanza di Palazzo Chigi che contiene i ritratti dei predecessori. Col ditino alzato stigmatizza la scarsa durata di ognuno dei presidenti «del Consiglio»: già, perché c’è un enorme non detto. In quella stessa sala, ma la telecamera si guarda bene dall’inquadrarlo, c’è anche (vergognosamente) il ritratto di Benito Mussolini: lui, sì, che è durato vent’anni!

Quel ritratto andrebbe rimosso (e al suo posto affisso un duro monito) non solo per i crimini atroci e devastanti di Mussolini e del suo totalitarismo omicida, ma anche perché quel governo fu illegittimo perché incostituzionale: «sotto questa finzione della monarchia di cui il fascismo ha mantenuto fino al crollo l’etichetta, da molto tempo non c’era rimasto niente di vivo: il re costituzionale non solo aveva cessato di essere costituzionale da quando aveva tradito il patto statutario, ma da quando aveva deferito al capo del governo tutti i poteri regi, aveva cessato di essere re. Di solito il colpo di Stato serve ad un sovrano costituzionale per rinnegare la costituzione … ma il monarca sabaudo ha fatto un colpo di Stato per conto altrui»,per dirla con le parole di Piero Calamandrei.

Ed è qui che il precedente, purtroppo, calza perfettamente per descrivere la riforma della nipotina (via Almirante) di un così orrendo nonno: anche il governo che dovesse formarsi dopo l’approvazione della “riforma” Meloni sarebbe incostituzionale: perché incostituzionale, cioè eversivo della lettera e dello spirito della Carta sarebbe la riforma, ancorché formalmente ineccepibile nei conteggi dei voti. Mai come e quanto oggi un governo della Repubblica ordisce, di fatto e nella legalità delle procedure, un attentato alla Costituzione: anzi, un colpo mortale.

È dunque il momento di una resistenza che usi ogni mezzo: ogni mezzo purché pacifico, incruento, costituzionale, legale. Ai cittadini, che nella mistificazione di Meloni dovrebbero avere più potere, dovremo chiedere: pensate di averlo avuto nei vostri comuni, nelle vostre regioni? La sanità della vostra regione, il cui capo eleggete direttamente, obbedisce ai vostri bisogni? Ebbene no, care cittadine e cari cittadini, questa è l’ultima rapina della nostra voce, l’ultimo borseggio della nostra sovranità. Se dovesse passare, voteremmo (ma in quanti?) una volta ogni cinque anni, e nel mezzo verrebbe buttata via la chiave della democrazia: saremmo prigionieri impotenti, molto peggio di oggi, nella galera dell’irrilevanza assoluta.

La parola, dunque, al popolo sovrano: in un referendum in vista del quale il fronte del No deve costruirsi fin da ora nel modo più ampio, fattivo e capace di prendere parola su ogni telefono, in ogni piazza, in ogni televisione. Come ha cantato Vinicio Capossela qualche settimana fa in un teatro Regio gremito, in uno splendido brano che invoca le staffette partigiane («Voi che passate il testimone /Perché arrivi più avanti, perché arrivi fino a noi / Che ancora abbiamo da resistere / Al mostro e alle sue fauci sepolte ai nostri piedi). Ecco, questa è la libertà: azione e responsabilità. Attrezziamoci. 

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