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No al francobollo per il fascista Foschi

ANPI Provinciale Parma dice “NO!” al francobollo che Poste italiane ha dedicato al fascista e repubblichino Italo Foschi colui che si congratulò con l’assassino di Giacomo Matteotti di cui ieri abbiamo celebrato il centesimo anniversario dell’uccisione e esprime piena solidarietà, quindi, a ANPI provinciale di Ferrara [...]

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[...]
Italo Foschi fu militante fascista, organizzatore dello squadrismo a Roma e fedele a Mussolini fino alla Repubblica di Salò quando l’Italia subiva gli eccidi delle brigate nere e delle SS nazisti. Mentre, ricordiamo l’assassinio di Giacomo Matteotti ad opera delle squadre fasciste, il governo del nostro Paese omaggia negli stessi giorni, con un francobollo, chi ha condiviso quel brutale assassinio.

Condanniamo questo grave vergognosa provocazione.

Questo francobollo è un’offesa alla memoria di Matteotti e di tutti gli antifascisti che hanno dato la vita per la libertà e la democrazia per il nostro Paese.

Chiediamo pertanto che venga bloccata subito la distribuzione.


L’ANPI Provinciale di Parma ritiene che tale gesto non solo offenda la memoria di coloro che hanno sofferto sotto il regime fascista, ma minacci anche i valori di libertà, giustizia e democrazia per i quali ANPI si batte da sempre. In un momento in cui è fondamentale ricordare e imparare dalla nostra storia, non possiamo permettere che figure legate a un passato di oppressione e violenza vengano celebrate in questo modo.

Continueremo a lavorare per promuovere la memoria storica e per difendere i valori di pace e giustizia.


matteotti_ritratto

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Vizzola 21.03.2021

Il 21 marzo 1945 a Vizzola vennero fucilati tre giovani partigiani: Ras di 28 anni, Andrei e Milan di 16 anni.

Questa mattina a Vizzola di Fornovo di Taro si è svolta la commemorazione dell’eccidio da parte dell’Amministrazione Comunale in collaborazione con ANPI Fornovo di Taro, ANPI Collecchio e IC Malerba, con il DS Giacomo Vescovini, e in particolare le classi della Primaria di Riccò che come ogni anno ha preparato un percorso di canti, grazie al Maestro Zarba, e letture.



Commemorazione ufficiale

Sig.ra Carmen Motta

Presidente Istituto Storico della Resistenza e della Età Contemporanea Parma

prima parte del testo. [...]

Tre i giovani partigiani che il primo giorno di primavera, il 21 marzo del 1945, furono fucilati davanti al cimitero di Vizzola, proprio qui dove siamo noi oggi, e fatto scempio dei loro corpi. La più terribile azione di umiliazione che si possa compiere su corpi inermi.

Chi erano questi giovani?

Giuseppe Azzolini, nome di battaglia Andrei, 17 anni partigiano dal primo ottobre 1944 al giorno della sua esecuzione, nato a santa maria del piano, calzolaio come il padre.

Ferdinando Bremi , nome di battaglia Milan, 16 anni partigiano dal 27 ottobre 1944 al giorno della sua esecuzione,nato a santa maria del piano.

Andrea Bianchi, nome di battaglia Ras, 28 anni, partigiano dopo l’8 settembre 1943 fino al giorno della sua esecuzione, di Altopascio, paese in provincia di Lucca, sposato, padre di una bimba, Alberta, bracciante.

Di Bremi si sa che fu ospitato da una famiglia di Parma composta da una signora anziana, una giovane con un bimbo piccolo ma la figlia Alberta che non ha conosciuto suo padre, non è riuscita a scoprirne l’identità.

La loro storia riassunta brevemente.[...]

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[...]

Catturati durante un rastrellamento il 14 marzo 1945 a Castrignano di Langhirano dai bersaglieri della divisione ”Mameli” in una operazione antiguerriglia, vengono consegnati ai bersaglieri della divisione “Italia”, che ne pretendono la consegna, e trasportati a Sala Baganza nella sede della Guardia nazionale repubblicana cioè la milizia della Repubblica fascista di Salò. Il 21 marzo i famigliari li poterono incontrare fugacemente e furono rassicurati da chi li aveva in consegna che sarebbero stati rilasciati. Giuseppe, che aveva sul volto i segni della violenza subita dai militari, chiese alla sorella se anche lei fosse stata arrestata e, quasi a volerle consegnare il messaggio che nessuno doveva tradire, le confidò di non aver parlato. I famigliari furono vigliaccamente illusi sulla salvezza dei loro congiunti la cui sorte era già stata decisa perché subito dopo la loro partenza i giovani furono caricati su un camion, condotti a Riccò e poi a piedi, attraverso i campi, al cimitero di Vizzola dove furono trucidati. Ci furono abitanti del paese che da lontano assistettero alla tragedia. Vinta la paura si avvicinarono a quei poveri corpi straziati e ne raccolsero i resti per comporli all’interno della cappella del cimitero. Gesto coraggioso di pietà umana, perché a quei tempi anche la pietà poteva comportare un serio rischio personale. Lo stesso giorno i corpi di Giuseppe e Ferdinando furono trasportati al loro paese natale, la salma di Andrea restò nel cimitero di Vizzola. Finita la guerra furono celebrati due processi ma i responsabili dell’eccidio furono scagionati. Giustizia negata ai famigliari, nessun responsabile che pagò per il crimine commesso fra i comandi fascisti. Per inquadrare meglio questa storia : quale era la situazione militare di allora? Come erano dislocate le forze che si fronteggiavano prima della sconfitta degli eserciti nazifascisti? Mussolini, pur ormai consapevole che la sconfitta era inevitabile, venne nel gennaio 1945 a Ozzano Taro ad incontrare la divisione dei bersaglieri “Italia”, alleata ancora con i tedeschi, per rinforzare l’attività di antiguerriglia partigiana nel territorio tra le valli del Taro e del Ceno, dove la resistenza era più organizzata e numerosa, e quelli delle valli del Parma e dell’Enza, con l’obiettivo strategico di difendere la cosiddetta “linea gotica” che delimitava il confine dell’appennino tosco-emiliano, a sud del quale erano schierati gli alleati anglo-americani in attesa di poter avanzare e liberare il nord Italia unitamente alla resistenza partigiana. I nazifascisti sapevano che crollata quella linea del fronte tutto era perduto. Per questo l’inverno del ‘44/’45 fu il periodo degli eccidi di partigiani, renitenti alla leva, militari che avevano rifiutato di aderire alla repubblica fascista di Salò,e fu il periodo delle rappresaglie più dure anche nei confronti di inermi civili come risposta alle azioni partigiane . Rappresaglie, rastrellamenti, per impedire ai partigiani di assumere il controllo delle principali vie di comunicazione del parmense: passo della Cisa e linea ferroviaria Parma-La Spezia. 155 furono le persone uccise, partigiani, civili, militari, da fascisti e tedeschi. Questi i fatti che ci riportano al ricordo di oggi qui a Vizzola, ma perché lo rinnoviamo ogni anno? Per farne memoria viva e non dimenticare, perché più ci si allontana dagli avvenimenti più questi sembrano distanti dal presente, sfumati nei loro contorni, e soprattutto perché il tempo affievolisce il ricordo delle persone che di quei fatti furono i protagonisti. Ce lo insegna la storia che succede questo, e la storia se non è viva, se viene raccontata unicamente come passato, se non è nutrita di gesti concreti come la nostra presenza oggi, non potrà più aiutare a comprendere il passato unico modo per comprendere il presente e quale futuro vogliamo. Le brevi vite di Giuseppe, Ferdinando,Andrea parlano ancora a noi non come “miti” ma come “esempi” vivi di coraggio, coerenza, passione,lealtà, gratuità del loro straordinario impegno per gli ideali e i valori che volevano fossero di tutti e per tutti. E allora chiediamoci: noi al loro posto cosa avremmo fatto in quei terribili anni di guerra devastante , dopo 20 anni di dittatura del regime fascista e di fronte alla occupazione della Germania nazista del nostro paese? Loro hanno scelto da che parte stare a rischio della vita e dell’esistenza delle loro famiglie per restituire libertà, democrazia, diritti, dignità e pace all’Italia. Non si sono piegati all’indifferenza, hanno affrontato la paura, hanno posto il “noi” davanti all’”io”, hanno donato il bene più prezioso che avevano, la vita. Cosa avranno pensato negli ultimi istanti prima della morte di fronte al plotone di esecuzione di italiani come loro, due ragazzi di 16 e 17 anni e un giovane uomo padre di 28 anni? Accettare la morte è sempre difficilissimo ma ci vuole coraggio, molto coraggio affrontarla come loro sono stati costretti a subirla e ferocemente umiliati perfino dopo la morte. Noi cosa avremmo scelto se fossimo stati al loro posto? Ecco a cosa serve la storia, non solo a conoscere ma a interrogarci nel e sul nostro presente, a chiederci perché tutto questo è avvenuto? Perché queste vite così preziose, come ogni vita, sono state annientate da una furia umana così cieca e violenta? Una risposta c’è ed è sempre la storia che risponde: perché allora fascisti e nazisti, avevano una visione totalitaria, nazionalista, razzista, escludente, discriminatoria dell’umanità; vedevano solo “nemici” e non avversari, concetto molto diverso dal primo, delle loro ideologie, semplicemente da eliminare con qualunque mezzo. Questi convincimenti ideologici hanno generato e generano sempre male ovunque siano stati applicati. E chiediamoci anche oggi accade ancora? Purtroppo si, in tante parti del mondo, a noi non lontane, non in modo uguale al passato perché la storia non è mai uguale a se stessa ma sicuramente tende a ripetersi. Dobbiamo essere consapevoli, molto consapevoli, di questo e comprendere che la speranza del benessere pacifico di tutti, non è un principio astratto ma il frutto delle nostre azioni. La democrazia conquistata quasi 80 anni fa, a così caro prezzo è un bene prezioso ma fragile, da salvaguardare con molta attenzione così come i diritti individuali e collettivi possono non essere per sempre. La disumanizzazione che caratterizzo quei tempi è sempre un rischio in agguato, alto, che bisogna combattere democraticamente ma scongiurare perché rende ciechi, sordi, insensibili a tutto. Fra poco celebreremo la festa della Liberazione, il 25.aprile, in quella ricorrenza ci sono le fondamenta della nostra Costituzione, conosciamola davvero, facciamola nostra, è il faro che potrà sempre guidarci nel presente e ad immaginare, memori del passato, il nostro futuro. Sempre ad occhi aperti sul mondo con fiducia e immensamente grati a Giuseppe, Ferdinando, Andrea, che lo hanno fatto tanti anni fa per noi, per tutti. E con noi carissimi partigiani ci sarete sempre e per sempre, è un impegno solenne che insieme vi dobbiamo, lo dobbiamo a voi ai vostri cari all’Italia democratica.

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Una Via per “Ilio”

caltatnisetta

A Caltanisetta il 12 settembre 2023 è avvenuta l'intitolazione di via Luigi Cortese a Caltanissetta.
 

La lettera del presidente Comitato Provinciale di Parma
Nicola Maestri

 

Carissimi tutti e tutte.

Il 9 settembre del 1943, Gino Cortese partecipò, a Villa Braga, alla prima riunione costitutiva della Resistenza che sancì l’inizio della lotta armata al fascismo. [...]

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[...]

Se pensiamo che all’età di 23 anni, senza conoscenza del territorio, fu incaricato di organizzare la resistenza in Val d’Enza, ci rendiamo conto della statura morale e dello spirito indomito dell'uomo.

Non per nulla in breve tempo, Gino Cortese divenne il Commissario “Ilio”, commissario politico della 47a Brigata Garibaldi (la Brigata dalla “testa calda” secondo una felice definizione dell’ANPI) e poi della Divisione Ottavio Ricci.  Con sprezzo del pericolo, Cortese assistette e sostenne i compagni, fu ferito, fu catturato e fu condannato a morte.

Il bombardamento del carcere di Parma ad opera degli Alleati rappresentò la sua insperata salvezza.

Il 25 aprile del 1945 alla testa della brigata Garibaldi, Gino Cortese liberò Parma.


Per il nostro territorio "Ilio" rappresenta un caposaldo del mondo resistenziale.


Siamo felici e orgogliosi per la scelta che il Comune di Caltanissetta ha voluto compiere.

Lo meritano Ilio e la sua storia; lo merita la sua famiglia; lo merita il caro figlio Enrico che abbiamo la fortuna di aver conosciuto; lo merita la sua città che lo ha visto crescere, andarsene e tornare.

Lo merita la memoria di Luigi Cortese, Partigiano "Ilio", un uomo che ha speso la sua vita battendosi per un mondo libero ed equo e si è prodigato per un mondo migliore.

 

Siamo con voi con il cuore e con la mente.

 

Un abbraccio forte e fraterno.

Nicola Maestri


Presidente Provinciale ANPI Parma

e tutto il Comitato

Caro Nicola, 

in calce alcune foto dell'intitolazione di via Luigi Cortese a Caltanissetta. 

La tua lettera ha commosso tutti, la famiglia Cortese e noi ti siamo molto grati per esserci stato vicino in questo giorno così importante.

A leggerla la compagna della sezione "Gino Cortese" di Caltanissetta Fabiola Cammarata.


Un grande abbraccio a te e a tutti i compagni dell' A.N.P.I. Parma ????


Claudia, ANPI Caltanisetta

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solidarietà ANPI Sarzana

L’Anpi di Parma fa appello alla Sindaca di Sarzana e alla Giunta comunale affinché si adoperino con urgenza per cercare una soluzione alla grave situazione venutasi a creare in relazione allo “sfratto” dalla propria sede dell’Anpi di Sarzana. [...]

continua

[...]

Non è accettabile che in una delle città italiane simbolo della lotta antifascista l’Associazione dei partigiani, tradizionalmente attiva nel far conoscere ed approfondire le tematiche su cui si fonda la nostra democrazia, si trovi a dover sospendere il proprio programma culturale e a non sapere dove spostare il proprio patrimonio documentario.

Per questo siamo solidali con le amiche e gli amici dell’Anpi di Sarzana e con i cittadini tutti che domani parteciperanno al presidio organizzato in piazza Luni per chiedere all’amministrazione comunale una soluzione temporanea che permetta il trasloco dell’archivio, dei mobili e dei materiali attualmente in sede.

Nella speranza che questo sia stato solo un incidente di percorso e che ci sia una reale volontà di affrontare il problema in modo positivo, noi dell’Anpi di Parma contiamo molto su uno sviluppo rapido della situazione, in modo da avere la certezza che i valori dell’antifascismo e della Resistenza – su cui si basa la Costituzione italiana - siano ancora al centro delle politiche comunali, al centro di ogni agire democratico delle nostre Istituzioni.

i-fatti-di-sarzana-antifascismo

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Quel sacerdote che non poteva obbedire

paolo papotti

Il 6 marzo 1965 don Lorenzo Milani pubblicava la lettera sull’obiezione di coscienza, un j’accuse contro il servizio militare obbligatorio, il fascismo, un’idea violenta di patria e tutte le guerre. Unica eccezione, la lotta di Liberazione. [...]

don milani a barbiana
Don Milani
continua

[Il termine laico non si riferisce solo ed esclusivamente al mondo delle professioni religiose. In senso politico e sociale denota la rivendicazione, da parte di un individuo o di una entità collettiva, dell’autonomia decisionale rispetto a ogni condizionamento ideologico, morale o religioso altrui. La laicità rifiuta, pertanto, qualunque forma (palese od occulta) di imposizione dogmatica e la pretesa di determinare le proprie scelte morali ed etiche al di fuori di una critica o un dibattito.


Non si confonda laico con ateo. Tale confusione è generata dalla superficialità, dalla volontà di dare spiegazioni alla pancia anziché al cervello, di fare in modo, dunque, di lasciare il distratto interlocutore nell’ignoranza. Diversi e tanti, purtroppo, gli esempi. In modo particolare una parte della politica degli ultimi anni ha proposto rosari, elenchi di santi o preghiere in tv contribuendo – oltre ad un abuso-sopruso improprio e di mercimonio della fede a scopi propagandistici – a una mistificazione che, oltre a sancire la presunta “giusta umanità” di chi professa la sua fede in pubblico, fa suonare laico come anticlericale o ateo, generandone disprezzo.


In politica, nella cultura, nelle fedi, ci sono esempi di persone che hanno inteso il termine laico come scelta secondo coscienza, accettando e affrontando le conseguenze. Nel libro di Lorenzo Tibaldo, Il pensiero resistente. L’obbedienza non è (sempre) una virtù, ho già tratteggiato il significato di uomini e donne che hanno mantenuto alta, fino alla morte, la loro autonomia di pensiero, la loro laicità rispetto a condizionamenti, pur appartenendo saldamente a un ideale. Il sottotitolo, con una “licenza” rispetto alla frase originale di don Lorenzo Milani, suggerisce la figura di un sacerdote che visse, e morì, con una concezione alta della propria dignità di uomo e di sacerdote.


Negli anni della sua attività, non venne certamente digerito dai conservatori e dalle destre perché considerato “cattocomunista”, fu “incompreso”, mal visto negli ambienti cattolici, che preferirono “allontanarlo”, inviso alle istituzioni a cui quali si permetteva di dare indicazioni, venne distrattamente ascoltato dai progressisti perché li superava a sinistra.


Se una persona non va bene a nessuno, è sicuramente in difetto… oppure c’è dell’altro?


Don Lorenzo Milani non è un prete convenzionale. È un sacerdote che sceglie la cultura e l’educazione universale, laiche, per tutti. Nell’ottobre 1947 è cappellano a San Donato a Calenzano, Comune operaio in provincia di Firenze. In quel contesto nasce la Scuola Popolare, dove don Milani vuole che nessuno si senta escluso a priori.


Capisce che chi non ha la possibilità di leggere un giornale o un contratto di lavoro non è in grado di difendersi dallo sfruttamento, né di elaborare un pensiero critico. Si rende conto che senza istruzione l’orizzonte della vita umana si riduce alla conquista di un piatto di minestra da consumare velocemente la sera, per poi andare a letto e ricominciare a piegare la schiena il giorno dopo. In quelle condizioni, anche l’ascolto dei testi sacri durante le messe rischia di diventare un rito di cui non si comprende il significato. A contatto con la povertà e con lo sfruttamento – elaborando le opportunità in cui è cresciuto e la miseria materiale e intellettuale in cui versa il popolo che gli è stato affidato – matura una profonda coscienza sociale e prende posizione pubblicamente. Cominciano le incomprensioni con la gerarchia ecclesiale, che vede in quelle idee un pericolo e non un invito accorato al ritorno al Vangelo.


Don Milani viene mandato in una pieve sul monte dei Giovi in Mugello. Barbiana nel dicembre 1947 è una povera canonica, qualche cipresso, un piccolo cimitero, poche famiglie in case sparse. A Barbiana si sale da una mulattiera, non c’è acqua corrente, né gas, né luce, vi vivono pastori e contadini che faticosamente strappano dal bosco e dalla terra i frutti per vivere. Il religioso capisce subito che i figli di quel popolo sparso, se il pomeriggio vanno a lavorare nei campi o devono badare agli animali, sono destinati a uscire prematuramente dalla scuola di Stato. Senza saper né leggere né scrivere; defraudati, se non nella forma nella sostanza, del loro diritto all’istruzione. Scartati già da piccoli, costretti a delegare in tutto, incapaci di aver voce come persone, come cittadini, e anche come cristiani.


Don Milani a Barbiana

La scuola di Barbiana comincia con un doposcuola, prestissimo diventa avviamento professionale e, nel 1963, corso di recupero per la media unificata. Nella scuola di Barbiana tutto è occasione di apprendimento. Don Milani accoglie i diseredati, quelli senza un’alternativa. L’esperienza educativa di Barbiana sviluppa anche un modello avanzato di autonomia, arrivando persino a mandare i ragazzi da soli all’estero a studiare le lingue.


Gli scritti di don Lorenzo Milani sono espliciti quanto difficili da digerire in quegli anni. Esperienze pastorali, del 1958, è la sintesi dell’esperienza vissuta dal sacerdote. Una riflessione sociologica e razionale sulle condizioni delle comunità in cui opera, sul ruolo del parroco in contesti di povertà materiale e intellettuale. L’esprimersi in modo diretto, infastidisce molti. Poco dopo la pubblicazione, il libro viene ritirato dal Sant’Uffizio.


Con Lettera ad una professoressa del 1967, poco prima della morte, propone una provocatoria disamina sulla scuola pubblica dell’obbligo di quegli anni, incapace di colmare, secondo Costituzione, gli svantaggi iniziali di chi nasce in una casa povera di cultura e di economia. Diverrà uno dei testi di riferimento del movimento studentesco sessantottino.


Poco meno di due anni prima, il 6 marzo 1965, don Milani aveva diffuso un suo scritto in difesa dell’obiezione di coscienza alle Forze Armate. Era una sorta di risposta alla pubblicazione di un documento con cui i cappellani militari della Toscana dichiaravano di considerare “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. Don Milani, con una lunga lettera pubblicata su Rinascita il settimanale del Partito comunista, sostiene la difesa dell’obiezione di coscienza contro l’obbedienza cieca. In modo perentorio e definitivo sostiene che l’obbedienza non è più una virtù.


Con linguaggio schietto e diretto, con precisione e puntualità, subito preannuncia tono e argomenti, rivolgendosi direttamente ai cappellani militari: “Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare coi miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi ed io non capiamo. […] Non posso fare a meno di farvi quelle domande pubblicamente. Primo, perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. Secondo, perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi”.


Già da questo incipit, si denota il suo modo di essere: non parla solo per sé, ma anche per quelli che rappresenta e coi quali, sicuramente, si è confrontato, cioè i giovani. In merito a una possibile risposta che i sacerdoti avrebbero potuto inviargli, don Milani scrive: “l’opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi […]. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti”.


Don Lorenzo Milani dunque si muove d’anticipo: usare l’insulto come argomento è uno stratagemma per nascondere poche e superficiali argomentazioni.


Poi entra nel merito della parola Patria, argomentando: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dico che, nel vostro senso io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri” […]. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.


A questo punto don Milani scaglia, con umana passione, fermezza valoriale e salda appartenenza la sua arringa a favore dell’obiezione di coscienza. “Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte.  Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, quando scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione”.


Parte dal significato degli articoli 11 e 52 della Costituzione, metro di misura per giudicare le guerre dall’Unità d’Italia al secondo conflitto mondiale e soprattutto concentrandosi sul significato di difesa della patria quando si invade un altro Paese, inserendo, nell’analisi, il ruolo dei sacerdoti nei confronti dell’esercito. “Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati”. Per rafforzare il suo pensiero elenca “il risultato delle azioni per la “Patria”: bombardamenti, uccisione di civili, rappresaglie nei villaggi inermi, le esecuzioni sommarie, l’uso di armi batteriologiche, chimiche, la tortura, i processi sommari, la repressione di manifestazioni popolari.


Il tono della lettera aumenta parallelamente al contenuto che sviluppa. Difesa della Patria e il ruolo dei sacerdoti nei confronti dell’esercito esprimono accenti sempre più umanamente accesi e coerentemente efficaci, mai offensivi ma certamente schietti.


1922, marcia su Roma. I roghi degli squadristi

“Era nel 1922 che bisognava difendere la Patria aggredita”. Inizia così, puntuale, precisa e spietata, la disamina della dittatura fascista. “Ma l’esercito non la difese. Stette a rispettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza, invece che con l’Obbedienza cieca, pronta, assoluta quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo”.


Non risparmia l’ignominia della guerra in Spagna: “Nel 1936 cinquantamila soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: andare volontari ad aggredire l’infelice popolo spagnolo. Erano corsi in aiuto di un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo di un milione e mezzo di morti riuscì ad ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa” […]. “Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro non si deve obbedire?”.


1941, Truppe italiane ad Atene

Il secondo conflitto mondiale è l’occasione per una disamina politica sui sistemi di governo del tempo. “I soldati italiani aggredirono uno dopo l’altra altre Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data”. Con lucidità tratta la dignità umana sia da religioso, sia da laico e continua: “l’uno (sistema democratico, ndr), rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri. L’altro (il sistema socialista, ndr), il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri. Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione di ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d’ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli Ebrei. Cosa c’entrava la Patria con tutto questo?” Quindi si rivolge ai sacerdoti che restando fermi sull’obbedienza, “fecero un male immenso proprio alla Patria e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche alla Chiesa”.


Una brigata partigiana

Conclude l’analisi sulle guerre, sollevando un’eccezione: la lotta di Liberazione dal nazifascismo: “Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra ‘giusta’ (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato”.


La lettera si avvia alla fine. “Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dell’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un distinguo che vi riallacci alla parola di San Pietro: si deve obbedire agli uomini o a Dio?”.


L’ultimo messaggio è rivolto ai giovani, esortando i sacerdoti a professare la verità: “ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima”.


La visione laica di don Lorenzo Milani e la sua concretezza abbracciano una idea universale di democrazia, indipendentemente dalle singole appartenenze, che raccoglie le esperienze umane, sociali, storiche e culturali che caratterizzano l’umanesimo, riferimento universale per i valori di democrazia e libertà.


Una risposta arriva. Don Milani è denunciato da “un gruppo di ex combattenti”; viene processato per apologia di reato e assolto in primo grado il 15 febbraio 1966. Muore prima della sentenza di appello del 28 ottobre 1967, che dichiara il reato estinto per morte del reo. Ingiusto, in tutti i sensi, umano e giuridico.


Don Milani e alcuni dei suoi ragazzi

Qualche riflessione finale. Don Milani coi suoi scritti turba le coscienze di tutti e non solo a chi si rivolge direttamente. Produrre riflessione critica è il suo intento. Quando questi elementi precorrono i tempi, le parole diventano profetiche tanto quanto non comprese. Davanti a don Milani, che non a caso usa la formula della lettera, c’è sempre un uomo a cui riferirsi. Una persona in carne ed ossa, un qui ed ora a cui rivolgersi. La forza delle parole di don Milani è quella di ragionare nel concreto, per arrivare ai principi. Ciò basta per considerarlo una esperienza, un esempio di vita vissuta, concreta. Di quelle esperienze che, dietro le parole, praticano il lavoro quotidiano senza pensare al bagliore delle luci della ribalta. Don Milani non aveva bisogno di diventare altro, per essere credibile; non aveva bisogno di altri luoghi per professare la sua fede e le sue idee; non aveva bisogno di agganciarsi ad altre appartenenze per essere creduto; non aveva bisogno di solidarietà altre e interessate, per essere compreso; non aveva bisogno di apparire né per tornaconto suo, né per opportunità altre e di altri.


Non è un azzardo, dunque, associare il pensiero del sacerdote don Lorenzo Milani ad un pensiero laico. Il termine laico, dunque, assume caratteristica di forza della ragione che non è mitigare o mortificare le proprie idee, anzi, averne una consapevolezza tale da renderle universali. Quella forza della ragione che è appartenenza chiara, esplicita ed esplicitata e, in virtù di questo, combatte perché i valori insiti in quella appartenenza, vengano davvero realizzati.


Un atteggiamento laico è, in questo senso, non dover limitare la propria libertà secondo gli ammaestramenti dell’autorità di qualsiasi credo. Perché le convinzioni sono talmente profonde, da non temere di essere libero.


A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: a chi appartiene oggi il pensiero di don Milani? Domanda sbagliata. Le esperienze sono utili per definizione, soprattutto quando sono tangibili e rimangono esempi universali, per tutti. Non perdiamo altro tempo.


Dopo cinquant’anni, il 20 giugno 2017, Francesco è il primo papa della storia a pregare sulla tomba del sacerdote. “Un bravo prete da cui prendere esempio”, le parole pronunciate quel giorno da Bergoglio. Ci voleva Francesco per capire Lorenzo.


Bibliografia

articolo di Elisa Chiari su Famiglia Cristiana del 25 giugno 2017
“L’obbedienza non è più una virtù”, don Giuseppe Milani, 1965
“Don Lorenzo Milani. Riflessioni e testimonianze”, Gruppo ex allievi don Milani, 1997
“Tra parola e conflitto. La comunicazione in Don Lorenzo Milani”, Mauro Bortone, 2008.

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