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La Resistenza in Italia - Storia e Critica

LA RESISTENZA IN ITALIA -  SANTO PELI. UN MANUALE PER L’USO

Il libro di Santo Peli, a 17 anni dalla sua prima pubblicazione, si conferma un ottimo “Manuale per l’uso” per chi si propone di ricercare informazioni aggiuntive al famoso “paragrafetto” dedicato a questi eventi nei libri di scuola.
Il testo si suddivide in due parti; nella prima sezione l’autore ripercorre gi episodi salienti della lotta di Resistenza a partire dall’armistizio di Cassibile nel settembre del 1943, fino a giungere alla liberazione dell’aprile del 1945. L’analisi di Peli offre una panoramica critica dei fatti avvenuti abbracciando nell’analisi eventi politici, militari, sentimenti patriottici e aspirazioni di partito.
La seconda sezione restringe il campo di osservazione e si focalizza su alcuni temi quali la sorte degli IMI (Internati Militari in Germania), la resistenza civile, il ruolo delle donne nella lotta di liberazione e le dinamiche caratterizzanti i GAP(Gruppi d’Azione Patriottica). [...]

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Nel complesso il lavoro di Peli propone uno spaccato chiaro ed esaustivo degli eventi della Resistenza, dissociandosi dalla mitizzazione e dalla pretesa di giungere ad una “memoria empirica”, preferendo piuttosto raccontare una storia fatta di tanti piccoli pezzi che incastrandosi, spesso a fatica, ricostruiscono una memoria un po’meno frammentata.


Frammentata, per l’autore sì. Una memoria fatta di tanti ricordi divisi, individuali, regionali, di partito o di brigata. È per questo che ripercorrere gli eventi che hanno caratterizzato la Resistenza, guardando ad essi da un punto di vista più prettamente storiografico e costringendo, ad un certo punto, ad abbandonare il sensazionalismo, a scendere a patti con il mito.


Quando un evento, come quello della lotta di liberazione coinvolge una così larga fascia di popolazione, quando lo stravolgimento sociale, politico, culturale ha una portata tale da trasformare la “Resistenza” in “Rivoluzione”, i confini dei fatti realmente accaduti finiscono irrimediabilmente per sfumarsi e confondersi con l’esaltazione, l’accrescimento, la mitizzazione, appunto, di ciò che è veramente stato.


Nella memoria dei più, o almeno di coloro che per indole e ideologia sono fieri celebratori della Resistenza antifascista, la lotta partigiana è rivolta popolare, è opposizione di massa al nemico invasore, è battaglia a volto scoperto, è martirio generalizzato, è sacrificio nazionale per un bene comune, un bene ideale, un bene irrinunciabile: la libertà.

Ad un analisi più approfondita, il mito delinea i suoi confini e mostra dettagli che nella celebrazione della vittoria risultano spesso “irrilevanti” ai fini del mitico racconto. 


Una domanda spinge l’altra e la mente si affolla. Il popolo unito in rivolta, ma quale popolo? Quanti erano? E se tutti combattevano per la liberazione, chi denunciava i partigiani nascosti? E quelli che hanno aderito all’RSI? E i rastrellamenti?


La questione del consenso è stata negli anni assai spinosa e per lungo tempo rimossa. Sono poi gli storici, nell’analisi degli eventi accaduti, a spiegare quanto, a partire dagli anni ’30, il consenso al fascismo avesse raggiunto quote considerevoli. Tutti gli italiani erano dunque fascisti? No di certo. Ma non tutti gli italiani sono stati partigiani.


  … Le pagine scorrono, il mito rimpicciolisce…


E se l’obiettivo comune era cacciare l’invasore perché scendere a patti con l’Alleato occupante? Dov’è il popolo unito, dov’è l’obiettivo comune se un Comitato prova a prevalere sull’altro, se i partiti antifascisti pensano alla liberazione non come l’obiettivo finale, ma come il primo passo per due futuri diametralmente opposti? E perché se il nemico feroce è stato battuto ha continuato a camminare, amnistiato, per le strade liberate?

Perché…  tanti, troppi perché. Il mito assume una forma diversa, concreta, reale. E dunque lo vedo, lo vedo anche se non c’ero, vedo il partigiano in montagna che progetta la spedizione, vedo la battaglia, il fascista fucilato, vedo il tedesco che abbandona la divisa, vedo i nemici in fila indiana con la testa china e lo sguardo vuoto, vedo Piazzale Loreto, vedo la folla festeggiare urlando “Libertà”.


Vedo tutto questo, lo vedo oggi con maggiore chiarezza, comprendo che tutte le grandi storie, nel racconto dei vincitori, assumono un'aura di magnificenza, ma non è questo a renderle meno grandiose. È proprio questo spirito critico che il libro di Santo Peli contribuisce a sviluppare, racconta eventi straordinari attraverso le molteplici sfaccettature del reale, offre al lettore l’opportunità di comprendere a fondo l’estrema complessità celata dietro il movimento di Resistenza.
Cinzia Di Salvo 

TITOLO: La Resistenza in Italia - Storia e Critica
AUTORE: Santo Peli
EDITORE: Einaudi, in Piccola Biblioteca Einaudi Ns
ANNO PUBBLICAZIONE: 2004

Faber

“PER SEMPRE COINVOLTI”: L’EREDITÀ DI DE ANDRÉ

di Rocco Rosignoli

Ventidue anni fa veniva a mancare a soli 58 anni uno dei più grandi cantautori della nostra storia, Fabrizio De André. Siamo certi che tanti fra i nostri associati siano degli amanti della sua opera, e abbiamo pensato che valesse la pena, in questa ricorrenza, spendere qualche parola per esplorare sia la sua poetica che il suo pensiero politico. [...]

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Fabrizio De André si è sempre dichiarato anarchico, e non è un mistero per nessuno. Ma anche il grande fiume dell'anarchismo ha molti ruscelli e torrenti a nutrirlo, e la sua foce è un delta ramificato. Ricostruire a quale corrente De André afferisse è difficile, ma dalla sua opera e dalle sue interviste emergono diversi aspetti del suo sentire politico: un utopismo consapevole e ben coltivato (“Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura,” diceva in una celebre intervista a Vincenzo Mollica); una fascinazione per il sottoproletariato, per il mondo degli emarginati, dipinto come un mondo “puro” nel bene come nel male; un forte antimilitarismo, che in gran parte (ma non completamente, vedi Il bombarolo) coincide con una concezione pacifista; e, non ultimo, un individualismo esasperato, a tratti edonistico.


C'è un filo rosso che va dai caruggi de La città vecchia fino agli zingari di Khorakhané, passando per L'indiano e per Creuza de ma e i suoi personaggi pescati “dalla spazzatura,” come diceva lui. È il filo rosso di un'umanità intrappolata in una condizione subalterna di drammatica sofferenza, in cui però è possibile scorgere “una goccia di splendore”; è un continuo frugare in quel letame da cui possono nascere i fiori, contrapposto all'arida ipocrisia borghese, sterile come un diamante, da cui nulla può sorgere se non sotterfugi e sofferenza.


De André si rifà in genere a una poetica di stampo decadentista, nella quale appaiono di rado lampi di realismo: pozzi di piscio e cemento, cadaveri di soldati (ma in quest'ultimo caso si cita direttamente il Calvino di Dove vola l'avvoltoio), sono eccezioni. Fabrizio De André preferisce di solito volare più alto: l'uccisione di una prostituta si trasfigura in una fiaba (La canzone di Marinella), la storia triste di un aborto diventa un epos sospeso tra Basaglia e la scoperta dell'America (Rimini), la satira sulla prima repubblica prende tinte degne della poesia modernista di T. S. Eliot (La domenica delle salme). Sono operazioni letterarie di grande levatura, di ottima fattura, di fortissimo impatto emotivo. Hanno tutte però un sottotesto drammatico: l'immutabilità del contesto sociale in cui si collocano sembra un dato acquisito, triste quanto ineluttabile. È la legge che non può cambiare, anche se lo vorrebbero sia il re che il popolo (Geordie, che ha tradotto dall'inglese in maniera riuscita e molto personale), il medico benefattore che capisce che per guadagnare deve farsi truffatore (Un medico); sono le mille prostitute cantate, che rimangono sacerdotesse del sesso dalla bocca voluttuosa, ma di cui non conosciamo sentimenti né pensieri, ma solo la professione, magnificata in un universo poetico in cui la realtà dello sfruttamento non viene mai indagata, in nessuna sua forma.


E infatti la classe sfruttata per eccellenza, quella operaia, non compare mai, nelle canzoni di De André. Se lo fa, sono gli sfocati “fratelli tute blu che seppellirono le asce” di Coda di lupo, che si confondono con quel ceto medio preoccupato solo che le proprie millecento vengano risparmiate dalle fiamme del '68 (Canzone del maggio). Un gruppo passivo e pacificato, determinato ad autoassolversi, quando le voci dalla strada gli ricordano che “anche se voi vi credete assolti, siete per sempre coinvolti.”


Non è un caso che nella sua opera manchi un qualsivoglia cenno alla Resistenza, anche quando la guerra è presente e le sue circostanze lasciano intuire che si tratti della seconda guerra mondiale. La Resistenza fu certamente un fenomeno trasversale e partecipato dalle tante realtà antifasciste presenti in Italia; ma è al contempo innegabile che, soprattutto nelle sue prime fasi, abbia ricevuto una forte impronta organizzativa proprio da parte del PCI, che per sua natura poneva come protagonista della storia la classe operaia, intesa come gruppo compatto di individui dalle caratteristiche simili.


Su questa concezione della classe operaia come soggetto rivoluzionario si erano scontrati Marx e Bakunin, producendo una frattura mai più sanata. La predilezione di De André è per il sottoproletariato e per l'individuo, la forma di resistenza massima che egli dipinge è la scelta di amare laddove il mondo vorrebbe competizione e contrapposizione, giudizio e sopraffazione. Benché nei valori professati da De André si possa riconoscere molto di quel patrimonio resistenziale che noi difendiamo, appare chiaro che il fenomeno della Resistenza non sia appieno sovrapponibile alla poetica dell'autore. E meno che mai può esserlo il paese che ne è scaturito, la Repubblica Italiana, un'entità statale. Secondo il padre dell'anarchia Michail Bakunin “qualunque stato, anche quello rivestito delle forme più liberali e democratiche, è necessariamente fondato sul predominio, sulla dominazione, sulla violenza e quindi sul despotismo.”


De André è un figlio dell'alta borghesia, e quella è la realtà che ha vissuto e per certi versi ripudiato. Lo ha fatto tramite una ribellione individuale, personale, creativa. Fabrizio De André è, in canzone, una figura d'autore che in letteratura e in pittura aveva già avuto molti predecessori: è il borghese schifato dalla sua classe sociale avvelenata dal danaro, che cerca purezza laddove il danaro non c’è. Come i suoi predecessori, anche De André tende spesso a dare una raffigurazione idilliaca delle gioie e dei dolori dei poveri, che vuole più puri, più sinceri. Quello che il suo sguardo esclude, o che la sua penna non ci racconta, è la realtà sociale che genera sfruttati, sfruttatori, ed esercito di riserva degli sfruttatori. Ci avvisa che non ci sono poteri buoni, ma non descrive un modello di civiltà che superi la concezione stessa del potere. Beninteso, non era assolutamente tenuto a farlo: lui cantava e scriveva canzoni. E forse dovremmo ricordarcelo, quando oggi qualcuno tenta di propinarcelo come filosofo, come pensatore politico, come incarnazione dei valori democratici: lui scriveva canzoni. Niente di più, ma neppure niente di meno.


Glorificare la figura di Fabrizio De André facendone un santino adatto a tutte le occasioni è un'operazione rischiosa. L'universo poetico che De André e i suoi tantissimi collaboratori (Bubola, De Gregori, Pagani, Fossati, Piovani...) hanno messo in canzone ha un contenuto alto, e una forma sublime, che porta alla massima espressività la compenetrazione tra componente musicale e poetica, il cui delicato equilibrio è al centro di quest'arte. Trascurare le sfumature e la complessità di questa poetica può portare al paradosso del Salvini di turno (ieri era lui, domani sarà qualcun altro) che rivendica De André come suo cantante preferito, quando in realtà quasi ogni singola sillaba di quanto egli ha cantato non può che essere in aperto contrasto con il sistema di valori che costui professa. Per carità, i gusti sono gusti, ma questo è un torto che un grande artista non merita. 

IO LA VEDEVO, DOVEVO - RECENSIONE DEL LIBRO DI IVAN FANTINI 

“A ho da dì del robe d'in si po' santì, alora al scriv per ne sti zitta.” Devo dire delle cose che non si possono sentire, allora le scrivo per non stare zitta.


“Du ca sirvie vuèlt? ”. Dove eravate voi?


Quando il vissuto diventa orribile e doloroso a tal punto da non riuscire a farne racconto orale e tuttavia è indispensabile raccontarlo, trasmetterlo per lasciarne traccia, allora si scrive proprio per non stare zitti. 

Non si può tacere, non si può trattenere nelle viscere un dolore troppo grande .


La Donna, l'anarchica, la matta, la lupa selvaggia, la puttana trova finalmente le parole, quelle parole che diventano strategia di sopravvivenza.


“Du ca sirvie vuèlt?”. Dove eravate voi?


La Donna è nascosta nella tana come un animale; in quella tana accoglie e nasconde sfollati e partigiani braccati come lei.[...]

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[...]

La Donna procura loro un nascondiglio sicuro, un anfratto, qualcosa da mangiare, un riparo dal freddo pungente. Lei sa accogliere e riscaldare perchè è “un randagio con l'affanno delle carezze”.


“Du ca sirvie vuèlt?”. Dove eravate voi?


Proprio voi che adesso le cucite addosso le etichette di matta e puttana, non c'eravate voi in quei buchi puzzolenti scavati nel terreno, in quelle tane dove arrivavano gli sfollati e i partigiani e lei li sfamava “senza voler niente in cambio e senza dire niente”.


Lei li vedeva, doveva.Lei abbracciava corpi scarnificati, con le costole che uscivano da sotto la pelle.


La pelle,quella pelle che la Donna ricamava incidendosi per dare“vita a un atto simbolico nei confronti del dolore e le ferite inflitte alle braccia si rivelavano un mezzo di lotta contro la sofferenza”.


La Donna, che in queste pagine ripete ritmicamente il suo angoscioso e rabbioso “Du ca sirvie vuèlt?”, visse in bassa Romagna.


La sua storia tra prosa e poesia, tra pièce teatrale e atto d'accusa ci lascia solo immaginare questa figura femminile “diversa”e , per questo, ai margini della società.


Prima“diversa”perchè anarchica e antifascista e per questo iscritta nel casellario e schedata e multata per aver cantato” se ammazziamo Mussolini non ci arresteranno più”; dopo, alla fine della guerra, “diversa”perchè atea e irrispettosa verso il concetto di proprietà.


La Donna è sempre fuori dagli schemi anche quando viene ammessa a lavorare come muratore, unica donna, nel 1948 alla ricostruzione edile.


Sarà ancora ai margini di una società che, dopo la guerra, ripristinerà regole maschiliste e patriarcali  e vivrà in povertà in un casolare abbandonato tornando ad essere considerata scandalosa, isterica e puttana.


Ivan Fantini ce la racconta.

“ho visto il suo sguardo capovolgersi

ascoltato le sue parole confinate in gola

per troppo tempo

ho assistito alla complicità tra pelle e corpo

farsi memoria

sorreggersi per ritrovare un presente degno

ho vissuto i traumi subiti

e la trascurabile felicità di un tempo

attraverso i suoi ricordi

ho sentito il dolore

scaturire dal vivere cercando di ricordare

e dal voler ricordare per continuare a vivere



Ivan Fantini ha riportato la Donna fra noi. Perchè?

Perchè la vedeva e perchè doveva.

Non ne conosciamo il nome ma non importa chi fosse e come si chiamasse: noi tutti,

attraverso il suo racconto, l'abbiamo vista.

Notte

LETTURE RESISTENTI: “Una storia ungherese” di Margherita Loy e “Notte” di Edgar Hilsenrath.
di Sara Ferraglia

Kinga è prigioniera in una cantina, la sua giovinezza è stata interrotta da un odio che “non è germogliato all'improvviso” ma è cresciuto fra la gente di Budapest come un tumore.


Lei racconta le sue giornate e scrive per sopravvivere alla fame, all'orrore, alla paura.


Scrive di sé bambina, poi ragazzina nell'agio e nel benessere della casa in campagna di Oma, la nonna. Scrive del suo primo amore, Gyalma, un amore che diverrà esso stesso un filo cui aggrapparsi per non essere sopraffatta dagli eventi. [...]

continua

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L'autrice passa continuamente dalla vita del “prima” a quella del “dopo”, da un capitolo all'altro, e ci si trova catapultati dalla normalità all'orrore in poche pagine.


Più passa il tempo, più la fame avanza, più diventa terapeutica la parola: “cerco nel mio vocabolario le parole per esprimere la desolazione, la stanchezza, l'esaurimento mentale e fisico che sta prendendosi il meglio di me.”


Il diario, da scrivere anche a costo di rischiare la propria sicurezza, anche quando è stremata, diventa un rifugio in quel mondo lasciato alle spalle, che via via la fa anche dubitare che sia mai stato vero, che sia frutto della propria immaginazione; eppure le è indispensabile.


Margherita Loy scrive di episodi crudi e dolorosi con un linguaggio avvolgente e sempre consolatorio, e mai si perde la speranza di arrivare alla salvezza, di vedere la fine di tanta sofferenza.


Forse è proprio questa alternanza tra i ricordi luminosi e pieni di vita e il resoconto della disumanità e delle sofferenze quotidiane che contribuisce a stemperare l'angoscia del lettore, e lo lascia sperare che i capitoli finali del libro siano di sola luce, di un nuovo cammino dell'umanità tutta.


Fin dalle prime pagine mi è stato inevitabile pensare ad un altro libro che ho molto amato, “Notte” di Edgar Hilsenrath, scrittore nato a Lipsia, ebreo d'origine orientale, il quale racconta in oltre cinquecento pagine la lotta per la sopravvivenza in un ghetto ucraino durante la seconda guerra mondiale.


Non è un diario, ma finisce per assomigliargli nella descrizione quasi ossessiva della quotidiana lotta per la sopravvivenza. Tuttavia, in “Notte,” la sensazione che si ha lungo tutto lo svolgersi del romanzo è che la disumanità stia prendendo il sopravvento. Le situazioni descritte sono comuni a quelle di “Una storia ungherese,” perché tristemente comuni a tutte le guerre, ma la differenza la fa il linguaggio. Quello di Margherita Loy è pervaso di immagini poetiche, di emozioni espresse con grande delicatezza, di ricordi che spuntano all'improvviso ad addolcire e rendere sopportabile anche la più tragica giornata.


“Notte” è, come esprime il titolo stesso, un lungo viaggio nel buio, dove ogni tanto affiorano come tremule fiammelle di candela piccoli segnali di un'umanità forse non del tutto perduta.


Due grandi romanzi che ho molto amato e che consiglio di leggere.

educazione di un fascista

L’EDUCAZIONE DI UN FASCISTA di PAOLO BERIZZI
Recensione a cura di Maurizio Artoni

“L’indifferenza che c’è intorno alle iniziative che i gruppi neofascisti dedicano ai giovani è preoccupante”, sostiene Paolo Berizzi, giornalista di Repubblica.


Berizzi ha condotto, negli anni, diverse inchieste sul neofascismo e per questa attività ha ricevuto minacce e atti intimidatori in seguito ai quali, dal febbraio 2019, vive sotto scorta.

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continua

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Inizio la recensione con un indovinello:


“Nell’era in cui i ragazzi passano i pomeriggi chiusi nei centri commerciali, noi preferiamo un modello alternativo fatto di impegno, di militanza, di attenzione al sociale e anche, ovviamente, di evasione”.


Come non condivide queste affermazioni? Chi le ha pronunciate? Potrebbero essere di un ragazzo appartenente a qualche associazione di volontariato. Nell’epoca in cui il consumismo pervade la nostra vita quotidiana, è consolante sapere che almeno una parte di giovani è orientata verso valori nobili di impegno, attenzione al sociale, ecc.


In realtà sono le parole di un giovane aderente a Casa Pound.


Ancora: “… ti devi documentare, devi sapere le cose …” dice un giovane militante di destra; come non essere d’accordo, anche se poi documentarsi significa leggere Codreanu, i diari del duce, il Mein Kampf, ma anche la vita di Che Guevara e Camilleri: segno di una curiosità intellettuale che può prendere strade diverse in relazione ai diversi stimoli ricevuti.


A me sembrano, questi due esempi, una misura del lavoro insidioso condotto dalle organizzazioni neofasciste nei confronti dei giovani.


Il titolo del libro è la sintesi perfetta del suo contenuto: la descrizione, soprattutto attraverso interviste, degli ambienti di estrema destra, poco conosciuti ma molto pericolosi, portatori espliciti dell’ideologia fascista, che non si rivolgono a vecchi nostalgici, ma alle giovani generazioni attraverso l’attività sportiva, la musica, il web, perché, dice Berizzi: “… lo sdoganamento progressivo del fascismo 2.0 passa anche e soprattutto dal consenso dei giovani …”.


I contenuti veicolati dalle organizzazioni neofasciste sono quelli di sempre: il culto dell’autoritarismo, della violenza, della morte, il razzismo e la xenofoba, la disciplina militaresca e la pulsione identitaria. Il risultato è la formazione di giovani militanti e picchiatori, indirizzati a presidiare le curve degli stadi, le scuole, le piazze.


Calcio, rugby, trekking, paracadutismo, sono in veicoli attraverso i quali i gruppi neri innestano e coltivano i propri “valori”.


Tratto comune agli intervistati è la negazione di intenti politici nel proprio operato: si tratta solo di sport e di attività finalizzate a togliere i giovani dalla strada e dalla droga. Dice il presidente e proprietario della “Palestra Lottatori Milano”: “I nostri valori non hanno colore politico e non hanno bandiera. L’umiltà è di destra o di sinistra? Il rispetto è di destra o di sinistra? L’impegno è di destra o di sinistra?”.  Come dargli torto? Se non fosse che la “Palestra Lottatori Milano” ha organizzato nel marzo 2019, con il patrocinio della Regione Lombardia, “Kids of the ring”, una manifestazione sportiva finalizzata alla raccolta di fondi contro la pedofilia; in realtà si tratta di lotta sul ring fra adolescenti; “ ..Corpi non ancora formati. Corpi che si sovrappongono, s’intrecciano per azzerarsi l’un l’altro. Alla fine resta il più forte, quello che ha piegato l’avversario”, è l’amara descrizione di Berizzi; “pugni e calci in sequenza ravvicinata; “Addosso! Addosso!” “Dai Michele, trita !” sono le incitazioni rivolte ai combattenti”, perché  “I cuccioli di qualsiasi specie lottano per gioco, e i nostri cuccioli non sono molto diversi”, dicono gli organizzatori, ed è così che si costruisce l’”uomo nuovo” che dovrà difendere la patria dall’invasione dello straniero.


Alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 la “Palestra Lottatori Milano” ha appoggiato la Lega facendo eleggere propri esponenti.


Non mancano le sponsorizzazioni per alcune palestre; ad esempio, Pivert, il brand di abbigliamento collegato a Casa Pound, diventa network per la promozione di ideologia sovranista, ultranazionalista razzista e xenofoba.


L’“educazione” del fascista è molto ben strutturata anche dal punto di vista simbolico. Lealtà Azione, gruppo di ispirazione neonazista vicino alla Lega, ha come simbolo il lupo; “… sei figo se sei un lupo: se appartieni al branco comunitario …”.


Tanti ragazzi delle periferie degradate delle grandi città, e non solo, aderiscono a queste associazioni perché sono le uniche, o fra le poche, ad offrire loro i riferimenti di cui vanno alla ricerca gli adolescenti.


Dice un ex militante, in seguito “uscito dal gruppo”: “… all’inizio cercavo un gruppo che mi trasmettesse delle cose di cui avevo bisogno: sicurezza, appartenenza …”; “… Oggi le curve sono un laboratorio di giovani e giovanissimi che ritrovano in curva le cose che io, e tanti come me, hanno trovato in un gruppo politico: cameratismo, fedeltà.”


Chi di noi, sto parlando degli ultrasettantenni, non è stato “in colonia” nel corso della propria infanzia? Era un modo economico per trascorrere qualche giorno di vacanza al mare o ai monti, lontano dalla famiglia, in compagnia di coetanei. Io ho un ricordo positivo di questa esperienza. Bene, con l’hastag #ibambinisianogliuniciprivilegiati, Forza Nuova organizza, oggi, le colonie per “i bambini italiani meno fortunati”, in linea con l’ormai collaudato “welfare nero” dei gruppi di estrema destra; il più piccolo ha quattro anni, il più grande tredici. Maschi e femmine.


Il programma prevede attività ludiche, educative e sportive, momenti di condivisione e di preghiera. Cantano in coro Nostri Canti Assassini, brano scritto da Massimo Morsello, terrorista dei Nar, uno dei fondatori, nel 1997, di Forza Nuova, morto a Londra nel 2001.


Ogni anno vengono anche organizzate decine di campi estivi per giovani, occasione di incontro delle varie anime della destra: Casa Pound, Forza nuova, Lega, Fratelli d’Italia ma, dice Berizzi “… non se ne parla”.


In questi campi, a momenti di attività sportiva si alternano incontri tenuti da storici, giornalisti, docenti su temi quali: “Il soldato politico: estetica, formazione, essere esempio”; “Sport di combattimento e difesa personale per un futuro di resistenza etnica”.


Sul welfare nero, Saverio Ferrari, dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre, traccia un’analisi precisa e puntuale della situazione: “Dove ci sono dei bisogni, il primo che arriva e che li soddisfa vince … Portare avanti queste iniziative di educazione dei giovani vuol dire essere presenti sul territorio. Anche sottotraccia. Significa essere partito militante.”


Non mancano i rapporti fra neofascismo, spaccio di droga, criminalità organizzata e tifoseria ultrà. Il 26 dicembre 2018, nei pressi dello stadio San Siro, nella battaglia fra ultrà interisti e napoletani muore Daniele Belardinelli, neonazista amico dei fratelli Bosco, arrestati il 28 gennaio 2019 per traffico internazionale di droga gestito dalla cosca ‘ndranghetista dei Mancuso.


Interessante la descrizione che Berizzi fa dei funerali di Belardinelli; sono presenti delegazioni delle curve fasciste d’Italia; cori, torce e striscioni. Berizzi viene riconosciuto e minacciato; non è questo che lo colpisce, non è la prima volta, ma le facce degli ultrà più giovani, ragazzi di sedici, diciotto, vent’anni; “… Il volto ancora glabro, senza i peli della barba, i corpi sottili e tatuati, il cranio rasato … La luce spenta dei loro occhi, sguardi smarriti a cercare un appiglio …”. È una descrizione da intendere, io credo, come l’ennesimo richiamo, drammatico, ad occuparci dei giovani in cerca di identità.


“Gli ultrà sono la parte più bella del tifo, lì c’è calore e passione” dice Salvini nel 2018, in versione ministro dell’interno, alla festa per i 50 anni della curva sud rossonera, dopo avere stretto la mano a Luca Lucci, il capo ultrà del Milan. Nel giugno 2019 e nel luglio 2020 a Lucci, già coinvolto in diverse indagini per aggressioni e droga, vengono sequestrati beni per un milione di euro nell'ambito di un'indagine su un traffico di stupefacenti.


Nella musica, gruppi nazirock parlano della Rsi, di Priebke, di Goebbels, delle SS, di Eva Braun e delle camere a gas attraverso pezzi rap, techno e pop rimaneggiati, così come innumerevoli social media veicolano contenuti razzisti; e sappiamo benissimo che musica e social sono un pezzo importante della vita di un adolescente; forse siamo meno consapevoli del fatto che per l’estrema destra sono mezzi di propaganda formidabili.


Le interviste di Berizzi non sono una semplice descrizione degli incontri con vari personaggi, ma anche fonte di continue domande che tormentano l’autore, attraversano tutto il libro e che dobbiamo farci anche noi “sinistra”, “progressisti”, troppo assenti nel rapporto con i giovani. Scrive Berizzi: “Nel ventre della società, lontano dai riflettori dei media, operano gruppi della cui esistenza arriveresti quasi a dubitare. Se non fossero veri”. Ad esempio, il “Kommandant” di una di queste organizzazioni si esprime in questi termini: “… Noi abbracciamo apertamente il sacrificio, la morte, la mascolinità, e veneriamo la violenza come risposta ultima, se è questo ciò che è necessario …”; notare che l’associazione del Kommandant si presenta su Facebook come “organizzazione religiosa”. L’esponente di un’altra associazione sostiene di dare voce a “tutte quelle comunità che si sentono perseguitate per la loro fede cristiana”, ma viene arrestato con l’accusa di avere partecipato, il 26 dicembre 2018, al raid teppistico contro i tifosi del Napoli.


Ancora sui rapporti fra Salvini, di cui molti “maestri di pensiero” continuano a sostenete che non è fascista, e gruppi neofascisti.


Davide Di Stefano, leader della squadra di rugby di Casa Pound, nel 2015 è a cena con Salvini.


Alle elezioni europee del 2019 molti militanti di Casa Pound votano Lega, al punto di riconoscere a Salvini la capacità di “portare avanti le nostre idee con efficacia e su larga scala”.


La fascistizzazione della Lega si vede anche a Pontida. “Vai via, ebreo!” gridano a Gad Lerner al raduno del 15 settembre 2019. Nessuno, anni fa, avrebbe insultato un ebreo in quanto ebreo.  I “terroni” non sono più nemici; lo sono gli immigrati, gli islamici, la gente che sbarca e che viene “accolta dallo stato negli alberghi a tre stelle”.


Il libro, dedicato in epigrafe agli indifferenti, si conclude con un grido d’allarme che mi sembra utile riportare integralmente:


“Oggi, più che mai, occorre tenere alta la guardia di fronte alla capacità di attecchire – anche tra gli adolescenti – di sentimenti e slogan che si nutrono della vocazione populista e autoritaria di alcuni leader politici, i cui calcoli e la cui spregiudicatezza, nell’Italia dei nuovi razzismi, hanno l’effetto di un detonatore. E possono favorire quel processo di fronte al quale ancora tanti italiani, nonostante ciò che la storia ha insegnato, continuano a non provare né indignazione né fastidio: la progressiva fascistizzazione della società”.


Le altre opere di Paolo Berizzi:


Il mio piede destro (con Dario Cresto - Dina, Dalai editore, 2005)

Morte a 3 euro - nuovi schiavi nell’Italia del lavoro (Baldini Castoldi Dalai editore, 2008)

Bande Nere (Bompiani, 2009)

La Bamba (con Antonello Zappadu, Dalai editore, 2013)

NazItalia (BaldiniCastoldi, 2018)

L'educazione di un fascista (Feltrinelli, 2020)

i comandamenti della montagna

I COMANDAMENTI DELLA MONTAGNA - STORIE DEI MONTI CHE FURONO Michele Nardini

I Comandamenti della Montagna: già il titolo del libro evoca spazi e silenzi attraversati forse da regole diverse  da quelle di luoghi in cui il rumore impera.

La montagna con le sue forre, i suoi anfratti e le sue cime, le Alpi Apuane della Linea Gotica, è un personaggio vivo, il cui respiro s’intreccia con la vita dei suoi abitanti e dei giovani che hanno compiuto la scelta fatale di quella che poi sarà chiamata Resistenza.  [...]

continua

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Fughe precipitose, spari, crepitii di fuoco violentano il silenzio, rari e offuscati da ombre funeste di paure sono i momenti di pace che assecondino l’andamento quietamente naturale dei giorni. L’esistenza di Davide, il giovane comandante di brigata, e dei suoi compagni Lapo, Totò, Elvira, Berto, Guglielmo e Tina s’apparenta ad una musica che, concitata, s’alza di volume all’improvviso, per poi spegnersi repentinamente.


Le difficoltà dei collegamenti e dell’approvvigionamento, il dolore per la morte degli amici, l’angoscia di doverla dare, la morte, gli avversari, il velenoso sospetto verso chi, pur compagno, morde il freno e non si sottopone alla disciplina, per condurre la lotta forse per fini personali, sono le dure esperienze di una Resistenza difficile, come afferma un saggio di Santo Peli. Tuttavia per riaccendere la fiamma della loro scelta sono sufficienti un onesto confronto intellettuale con Don Angelo che li aiuta, il ricordo delle parole di un professore a scuola o la saggezza di un nonno contadino che aveva un motto o un consiglio per qualsiasi circostanza riguardante la montagna. L’inenarrabile strazio di Sant’Anna, pur spezzandoli, non li annienta, non inquina le loro speranze e, raccolte le forze, insieme a Don Angelo dettano a se stessi i Comandamenti della Montagna, di cui il quarto recita "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Abbi pietà, perché è dalla pietà e dal perdono che nasceranno le basi per un mondo più giusto".


È un proposito altamente etico, che rischia continuamente di infrangersi di fronte alla brutalità degli avvenimenti e a un nemico che aderisce sempre di più alla pratica della violenza sanguinaria.


Vi si tiene fede, pur a fatica, fino alla fine.

E il mondo del “dopo”, tanto agognato, è come lo si era immaginato?


Le pagine dell’epilogo di questo racconto, d’invenzione, certo, ma fondato su fatti scientificamente accertati, sono permeate di una certa malinconica disillusione.


L’albero solitario di Carlo Mattioli, campeggiante in copertina, suggerisce ancora solitudine e silenzio, forse triste isolamento?


Tuttavia l’autore, a commento e motivazione della sua opera, ci lancia una sfida… Se, delusi del presente, “ricerchiamo nel passato un’idea e una speranza per l’avvenire, la Resistenza è lì, al di là della retorica e di tutte le polemiche- a dimostrare che le regole, se inaccettabili, si possono sovvertire”.

Ora tocca a noi se raccoglierla o meno!

Via Bixio

Quell’angolo di Via Bixio verso porta San Francesco

Storia di una strada e di un uomo 

di Giovanna Bertani

La ricerca su Tomaso Barbieri nasce nel 2009 da una collaborazione tra la Professoressa Giovanna Bertani e i suoi studenti.

Inizialmente autoprodotta, la ricerca approda poi sulle pagine di Aura Parma nel 2013.

Lo studio effettuato dalla Professoressa Bertani è completato poi da interviste a testimoni viventi e documenti d'epoca, mentre i ragazzi della sua classe lo arricchiscono tramite plastici in scala dell'Opificio Barbieri, disegni e mappe della Parma dell'epoca.

Grazie a questo lavoro si vuole infatti esplorare non solo la figura dell'imprenditore visionario Tomaso Barbieri e della sua fabbrica, ma anche la vita nell'Oltretorrente, l'origine dell'Opificio, i rapporti con i cittadini e l'importanza che la Fabbrica, nel corso dei decenni, ha avuto per Parma e, soprattutto, per Via Bixio.

Nel 2019 l'autrice della ricerca la ripropone grazie ad una collaborazione tra ANPI Parma e la Festa Internazionale della Storia - Parma.

Spesso, camminando per le città, passiamo in maniera distratta a fianco di luoghi che, tra le case e il brusio indaffarato dei cittadini, hanno segnato la storia e ora ci guardano dimenticati.


Piazzale Tomaso Barbieri, a Parma, è un esempio calzante: il piazzale, punto di passaggio cruciale per i parmensi, ha perso la sua storia, diventando per tutti, nel corso degli anni, “Barriera Bixio”, perdendo il suo nome, ricordato solo dagli altoparlanti degli autobus che annunciano le fermate. Grazie alla professoressa Giovanna Bertani, in occasione della Festa Internazionale della Storia, abbiamo avuto modo di conoscere la storia di una fabbrica, di una strada, di un uomo.  [...]

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La storia della fabbrica: l’Oltretorrente che lavora

L’Oltretorrente, fucina di cultura e di vita di Parma, fin dal ‘700 circa è caratterizzato dalla presenza di un edificio adibito a fabbrica nei pressi delle mura cittadine, più precisamente davanti a Porta San Francesco. Tra il 1870 e il 1880 inizia la storia vera e propria della fabbrica: in quel periodo viene acquistata da Luigi Ferrari, che da subito dà un’impronta innovatrice sfruttando il Canale Naviglio Taro per il funzionamento dei macchinari. Dai documenti dell’epoca si evince che l’Officina Ferrari ha un macchinario dal motore di “ben un cavallo di potenza”.


Alla morte di Luigi Ferrari, avvenuta nel 1908, la Fabbrica viene ceduta in eredità, con gestione in perpetuo, alla Congregazione S. Filippo Neri: una Congregazione di Carità attiva da prima del ’500, con una Farmacia in attività dal 1670 e che occupava un ruolo fondamentale per la gestione cittadina fin dal 1873, quando, per aiutare la popolazione di Parma, divise la città in nove quartieri affidando ad ognuno un medico chirurgo.


La fabbrica viene quindi affittata e prende il nome di Officina Meccanica e Fonderia Ing. Cugini e Mistrali Successori Ferrari. Nel 1911 la fabbrica sarà provvista di macchine idonee alla fabbricazione di qualsiasi lavoro meccanico.

Tra il 1912 e il 1913 la Fonderia Cugini e Mistrali fallisce. In seguito, durante la Grande Guerra e nell’immediato dopoguerra, seguirà un periodo di difficoltà economica-sociale, con tumulti causati dalla situazione politica, che sfoceranno poi nelle Barricate del 1922.


Nel 1923 lo stabilimento viene affittato dalla Congregazione a Tomaso Barbieri, che acquisterà la fabbrica nel 1938.


Tomaso Barbieri: vita e morte di un visionario

L’imprenditore parmense, fin dall’acquisto dell’Opificio, inaugura una fabbrica all’insegna dell’innovazione meccanica, sociale e culturale: dai progetti di rinnovamento presentati intorno al 1940 si evidenzia come Barbieri avesse un occhio di riguardo verso i suoi operai, inserendo all’interno della fabbrica una scuola per i mestieri, una mensa aziendale e spazi comuni. Le testimonianze raccontano di un uomo alla pari con i suoi dipendenti, dallo spirito indomito e visionario: Tomaso fu uno dei pochi, durante un periodo di miseria quale era il ventennio fascista, a stabilire uno stipendio fisso, garantendo ai suoi dipendenti la possibilità di avere una vita dignitosa. Importanti furono le possibilità offerte all’interno dell’Opificio Barbieri: i dipendenti avevano la possibilità di montare macchinari all’estero, creando un clima di apertura anacronistico rispetto ai dettami imposti dal fascismo italiano. Verso quest’ultimo poi, Tomaso, non nascondeva la sua avversione: non solo come imprenditore non era iscritto al Partito Fascista, ma dava la possibilità ai cosiddetti “sovversivi” di lavorare all’interno della sua ditta.


Questo atteggiamento gli attirò le antipatie dei fascisti parmensi, che però non misero mai in atto azioni esplicite contro di lui: oltre qualche minaccia e aggressione, l’intento primario del Fascismo fu quello di integrare un’impresa fiorente come quella di Barbieri all’interno dei suoi simboli, osannando Tomaso come portavoce dei principi lavorativi del Duce, come si evince dagli articoli della rivista “Il Tribuno”.


Tutto cambia il 31 Gennaio 1944, quando un gruppo di legionari in partenza verso Roma viene colpito da un ordigno esplosivo, che uccide il giovane fascista Adolfo Cianchi.


Questo è l’incipit di una notte di sangue.


Nella notte tra il 31 Gennaio e il primo Febbraio del 1944 vengono prelevati tre presunti oppositori antifascisti: Ercole Mason, Emmo Valla e Tomaso Barbieri.


Saranno tutti uccisi.


Il corpo di Barbieri verrà abbandonato riverso a faccia in giù davanti alla sede delle Tranvie, ucciso da una raffica alle spalle, a pochi passi da casa e dal suo Opificio.


Questa vicenda è ricca di misteri: gli assassini pare non siano stati mandati dal comando Fascista di Parma, bensì la rappresaglia sembra opera di cani sciolti che pretendevano una reazione per la morte del giovane legionario. Questi sicari pare che in qualche modo siano riusciti ad ottenere una lista redatta dalla Questura, che elencava gli oppositori ritenuti in pericolo in seguito agli eventi. Tra loro, Tomaso Baribieri. La sera del 31 Gennaio la polizia aveva provveduto ad avvertirli, ma Barbieri aveva rifiutato di farsi proteggere.


Barbieri riceverà una cerimonia funebre il 5 Febbraio, mentre al giovane legionario Cianchi saranno date solenni onoranze. Solo in seguito, dai documenti ufficiali (tra cui resoconti tedeschi) sarà possibile evincere che la morte di Adolfo Cianchi era stata causata da un incidente, e non da un attentato: l’ordigno esploso pare fosse una bomba a mano incautamente maneggiata dal gruppo di giovani fascisti.


La morte di Tomaso segna un punto di svolta nel suo progetto: la fabbrica viene affidata, sotto richiesta delle autorità nazi-fasciste, a Gino Carra. Dopo pochi mesi, la sorella Umbellina muore stroncata dal dolore, lasciando la sua quota sull’Opificio alla Congregazione S. Filippo Neri con la clausola di dare i proventi agli operai e di continuare l’attività sotto il nome di Tomaso Barbieri.


Alla morte della madre di Tomaso, avvenuta nel 1946, la gestione della sua quota passa alla Congregazione, che l’affitta alla Cooperativa degli Operai della Fabbrica. Questi condurranno l’attività insieme all’ultimo erede di Tomaso: Luigi Barbieri, il nipote, figlio di un fratello scomparso in precedenza, fu disconosciuto dalla madre di Tomaso e avrà un rapporto difficile con la Cooperativa degli Operai nella gestione della fabbrica.


Pur continuando la rotta tracciata da Tomaso, la fabbrica incontra un periodo di difficoltà, testimoniato anche dagli articoli dell’epoca che parlano della Vertenza Barbieri. Nel 1959 la fabbrica viene messa in liquidazione e acquistata dalla Società Officine e Fonderie Robuschi e C.


Nel 1960 viene posta una targa in memoria di Tomaso Barbieri. La targa purtroppo però verrà distrutta 44 anni dopo: nel 2004, durante i lavori di restauro dell’ex Opificio per ricavarne un condominio, sarà sgretolata a colpi di piccone e perduta per sempre.


La ricerca della professoressa Bertani nasce qualche anno fa: nel 2009, infatti, Giovanna e alcuni suoi alunni si impegnano a reperire informazioni sulla storia di Tomaso Barbieri e dell’Opificio, ricavandone una piccola tesi ricca di documenti, planimetrie e foto d’epoca. Questo progetto trovò poi lo sbocco in due pubblicazioni: dapprima in un’autopubblicazione, poi sul numero del 2013 di Aurea Parma.


“Tutto è iniziato dai racconti di mio padre,” ha spiegato Giovanna durante la sua conferenza. “Era operaio all’interno della fabbrica. In me è nato il bisogno di conoscere meglio la storia di questo luogo quando, durante i lavori di costruzione del nuovo plesso condominiale, ho visto la targa, tanto cara agli operai, distrutta”. L’insegnante è emozionata quando racconta di Tomaso e della sua Officina, perché non è solo la storia di un imprenditore: è la storia degli operai e delle famiglie dell’Oltretorrente, la cui vita si è legata in maniera indissolubile con quella della fabbrica e che, ora, fa parte anche di chi ha avuto modo di parlarne con Giovanna, assorbendone la passione e l’interesse che la animano sempre.


Giovanna Bertani: una professoressa che non smette mai di insegnare – Un Volontario del Servizio Civile racconta la sua esperienza


"Giovanna, insegnante e volontaria dell’ANPI di Parma, è presente da alcuni mesi nella nostra quotidianità. Fin da subito, infatti, siamo entrati in sintonia con lei: è una donna dolce, sempre pronta a dare una mano e, soprattutto, ad insegnare.


È una professoressa, ma non solo di mestiere. Giovanna ha la capacità di trasmettere passione, di farti amare qualcosa che, fino a pochi minuti prima, non consideravi nemmeno interessante.


Ho avuto modo di parlare con lei, di discutere argomenti seri e di scherzare tranquillamente, e ogni volta ne sono uscito arricchito. Quello che Giovanna riesce a creare non è solo la comunicazione di nozioni, ma uno scambio di prospettive che, molto spesso, finisce per arricchire entrambe le parti. Questo è quello che è successo nella conferenza su Tomaso Barbieri e, specialmente, “dietro le quinte” dell’evento: pur trattando un argomento che, un po’ per mancanza di informazioni e un po’ per la tematica, poteva creare noia o, peggio, disinteresse, Giovanna è riuscita a creare terreno fertile. Mi ha coinvolto sul piano pratico, chiedendomi di aiutarla nella parte informatica e nella “restaurazione” dei materiali creati con gli studenti della sua classe, ma anche sul piano emotivo: la ricerca, frutto del lavoro e della cooperazione tra studenti e insegnante, ora la sento in parte anche mia. Grazie a Giovanna ho scoperto un pezzo della storia della mia città, del mio quartiere. Tomaso, come molti altri, non sarà dimenticato fino a quando esisteranno persone come Giovanna che, grazie alle sue capacità, fanno rivivere queste persone attraverso i loro studenti.


Grazie Giovanna, non solo per la tua conferenza, ma per i tuoi continui e bellissimi insegnamenti."


Francesco Zatti, Operatore Volontario del Servizio Civile presso ANPI Parma