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Avere costruito un centrosinistra largo ovunque è un risultato prezioso, come importante in questi due anni è stato il recupero di una credibilità nelle battaglie su salario, sanità, scuola: campi che anche governi a guida di centrosinistra non avevano saputo rappresentare e comprendere. Ribadisco ancora una volta che ANPI non entra nelle dinamiche dei vari partiti ma va da sé che la politica inclusiva a cui noi aspiriamo non è sicuramente rivolta verso l’attuale compagine governativa che su varie tematiche sta rappresentando le pulsioni più retrive, razziste e classiste come nessun governo prima aveva messo in campo.
Sono del parere che se vogliamo recuperare autorevolezza dentro mondi delusi da scelte che hanno indebolito la democrazia dobbiamo accelerare un’alternativa che non sia solo una somma di sigle, ma coinvolga parti di società disposte a costruire assieme un’idea dell’Italia dove sentano di avere spazio e una quota di potere nel senso della decisione. Credo che la nostra Associazione, pur rimanendo fedele alle proprie prerogative di autonomia e indipendenza dai partiti, debba però svolgere il ruolo di catalizzatore e veicolare messaggi positivi e costruttivi di collaborazione verso chi dimostri di tenere alla nostra Carta Costituzionale e verso coloro che preservino la libertà di espressione in ogni sua forma.
Lo dico perché fuori da qui il mondo è scosso da eventi che chiedono anche a noi una riflessione alta e penso che dovremo farlo con tutta la sincerità necessaria.
Il punto è che stanno cambiando equilibri di potere, storiche alleanze internazionali, si accentuano povertà, ineguaglianze, che portano milioni di persone a ribellarsi o ad arrendersi.
La più potente democrazia del pianeta è ostaggio di una plutocrazia volgare e violenta.
Sullo sfondo un protezionismo di dazi e ricatti, a conferma che “dove non passano le merci, prima o poi passano le armi”.
Perché di questo stiamo parlando: di una economia di guerra che coincide con due conflitti devastanti in una stagione dove vecchi e recenti imperi lottano per la loro egemonia su scala globale.
Personalmente credo che regni un'euforia esagerata, per alcuni versi tuttavia giustificata, sul negoziato tra Israele e Hamas per terminare il massacro nella Striscia di Gaza. Che non si spari, date le circostanze, è già un enorme risultato. Quanto alle magnifiche sorti della trattativa, solo il tempo dirà. A cominciare proprio dal testo dell'accordo in venti punti per il quale il presidente americano Trump avrebbe preteso in via preventiva il Nobel. Il linguaggio utilizzato è talmente generico da permettere qualsiasi interpretazione. Infatti a minor intensità e con poco eco sulla stampa, ma le uccisioni indiscriminate proseguono e l’occupazione è nei fatti.
Diamo per scontato che almeno la fase uno si concluda felicemente con lo scambio degli ostaggi israeliani (vivi e ora i morti che ancora mancano) e i prigionieri palestinesi, anche se non è così e le cronache ce lo raccontano. Già la lista segnala una possibile criticità futura, a causa di un'assenza. Manca il nome di Marwan Barghouti, il quale non è soltanto il più famoso degli ergastolani, ma anche, secondo tutti i sondaggi, l'eventuale vincitore a mani basse in un'elezione per il presidente palestinese. Lo voterebbero i suoi connazionali di qualunque tendenza. Persino molti pro-Hamas, lui che è profondamente un laico. Israele ha lamentato spesso di non aver un interlocutore credibile e rappresentativo con cui trattare dall'altra parte. Lo avrebbe. Obiezione: è un terrorista condannato a cinque ergastoli. Contro-obiezione: non era forse un terrorista Begin, ex primo ministro di Israele e premio Nobel per la Pace, organizzatore di vari attentati tra cui quello al King David hotel in cui morirono 91 persone tra militari britannici e civili palestinesi? E con il "terrorista" Arafat non furono forse firmati gli accordi di Oslo?
Tenere in cattività Barghouti è l'evidente cartina di tornasole dell'indisponibilità di Netanyahu a considerare qualunque futura mediazione con la controparte. Ovvero, uno Stato palestinese non solo non è alle viste, ma nemmeno, nelle intenzioni di Israele, in un'agenda futura.
Purtroppo la possibilità di una ripresa delle ostilità, quindi della ripresa del massacro, non è affatto remota.
Lo stesso omicidio di Charlie Kirk segna una svolta nel mandato di Trump col saldarsi dell’estremismo religioso a ricchezze sfrontate, in una ideologia e concezione del potere che si vorrebbe imporre a guida dell’Occidente.
In casa nostra il tutto ha la piega cinica e imbarazzante di Giorgia Meloni che passa dallo spargere odio alla propaganda domenicale sulla rete ammiraglia del servizio pubblico.
In questi giorni l'intimidazione subita dal conduttore di Report Sigfrido Ranucci e dalla sua famiglia lascia sgomenti. Non solo per l'aggressione a colpi di bombe carta al giornalista, che da anni è uno dei simboli di chi prova ancora, cocciutamente, a raccontare le pieghe nascoste e gli scandali dei potenti. Ma anche perché rende manifesta una democrazia monca, malata, dove i cronisti che fanno il loro dovere rischiano, sistematicamente, pressioni e minacce, fino a violenze come quella del 16 ottobre scorso. La solidarietà non basta. La destra non può manganellare il giornalismo critico. Un comportamento simile utilizzato su più fronti. Fare del vittimismo per poi avere mano libera per colpire verbalmente, per ora.
Nei giorni precedenti invece una critica particolarmente stucchevole veniva mossa da questo governo all'iniziativa della Global Sumud Flotilla, nello specifico che si trattasse non tanto di un'operazione umanitaria, ma anche o soprattutto di un gesto politico. Non solo i due intenti convivevano naturalmente, ma forse c'è di più, forse si aggiunge un elemento filosofico a quello politico. I naviganti della Flotilla hanno messo l'inerte Occidente (governo italiano in testa) di fronte alla sue contraddizioni, ipocrisie e mancanze, che forse mai come nel caso dell'assedio di Gaza e del genocidio dei palestinesi si stanno manifestando.
All'obiezione che sarebbe più rapido ed efficace lasciare la consegna di aiuti umanitari ai governi coi loro mezzi, l'iniziativa in sé e per sé della Flotilla ha posto una domanda, sia banale che profonda: perché finora non lo avete fatto?
Perché nemmeno una parola, un gesto contro il blocco degli aiuti, o contro i proiettili che uccidono chi cerca un pezzo di pane, verso un paese che scientemente affama la popolazione aggredita, secondo la logica del "ogni bisonte morto è un indiano in meno" con cui gli americani affamavano i nativi per sterminarli due secoli fa?
All'accusa di voler provocare l'esercito invasore israeliano, la Flottilla ha replicato: perché accusate noi che non violiamo nessuna legge e veniamo in pace, e tacete su chi ci aspetta con le armi e in violazione del diritto internazionale?
Al sovranismo e patriottismo d'accatto, al Prima gli Italiani, la Flotilla ha controbattuto: siamo cittadini anche noi, e allora perché non ci proteggete dagli attacchi (infami) coi droni? Perché la "difesa dei confini nazionali" non include le imbarcazioni che battono bandiera di quella stessa nazione? E perché i gazawi non possono esercitare la sovranità sulle loro acque territoriali, e far entrare chi vogliono?
Di fronte alla critica di velleitarismo e sterilità dell'iniziativa, di stare perdendo tempo e soldi, la domanda dei naviganti è sempre la stessa: ma voi dove siete, cosa fate? Dove eravate un anno fa, due anni fa, quindici anni fa?
Il metodo del padre del pensiero occidentale ha posto quindi i governanti di questa parte di mondo di fronte alle loro ipocrisie, all'incoerenza e inconsistenza dei loro messaggi e delle loro azioni. L'Occidente dei diritti universali tratta i popoli diversamente a seconda della loro provenienza, religione e colore della pelle. L'Occidente democratico e liberale chiude entrambi gli occhi di fronte a un genocidio, se a perpetrarlo è una presunta democrazia "alleata", perché la divisione fra amici e nemici, "noi" e "altri" domina rispetto a quella tra oppressori e oppressi.
Ci sono voluti i corpi, il coraggio e la resistenza (Sumud, in arabo) degli equipaggi di quelle cinquanta barche per mostrarci la nudità e lo squallore dei governi di fronte alla tragedia palestinese. E allo stesso tempo per ricordarci che non tutto è perduto, che è ancora possibile risalire il baratro morale in cui stiamo precipitando.
In quanto all’Europa balbetta: critica Netanyahu con sanzioni risibili.
Assiste al collasso della V Repubblica in Francia e alla strategia di riarmo della Germania.
È un’Europa sempre più vaso di coccio tra autoritarismi, autocrazie, dittature.
Di fronte a questo rivolgimento il tema è come il progetto di ANPI si colloca in uno scontro che ha come posta esplicita la democrazia liberale, le sue regole e istituzioni.
E qui arrivo allo stimolo, al pungolo che ci spetta far giungere alle istituzioni in senso lato. Ecco perché bisogna che una classe dirigente si faccia interprete non solo di bisogni materiali, ma di una domanda più profonda, di senso e indirizzo della storia, ed è fondamentale che lo faccia anche ANPI perché è la sola condizione per rafforzare tutta la galassia del mondo progressista, anziché spargerci in mille rivoli che non incideranno tangibilmente nella vita delle persone più in difficoltà.
La domanda, anche per noi, è se, dentro questa nuova scena dell’Europa e del mondo, l’Italia, per il suo passato, la cultura, la tradizione, può avere ancora una funzione diversa dal nulla di adesso.
Per prima cosa sul capitolo della pace da opporre a una narrazione che punta a militarizzare la stessa diplomazia.
Si tratta di capire se siamo in grado di offrire con il nostro impegno, maggiore ampiezza di visione e respiro a un pensiero per l’Alternativa (senza lasciare un ambito tanto fondamentale alla sola testimonianza delle proprie fedi) perché questo risulterebbe riduttivo e settario.
Penso che su questo si siano compiuti dei passi importanti e che su questi capitoli, però, al punto in cui siamo non possiamo attendere gli altri. Tutto il mondo progressista in questo momento buio della storia, diventa risorsa essenziale.
Ma di fronte alla portata dei fatti tocca a noi dire, spiegare, raccontare come pensiamo questo tempo storico, ce lo ha consegnato a piene mani la storia che ci ricorda il grande sacrificio di chi ci ha preceduto nella riconquista della libertà. Abbiamo il diritto/dovere di farci sentire, e lo dobbiamo fare perché sono le donne e gli uomini dietro le nostre spalle a renderlo evidente.
E dobbiamo farlo perché grazie a loro, siamo quelli che hanno dentro di sé gli anticorpi per interpretare quel moto di indignazione che si respirava nelle piazze giovanissime di questi giorni e gli interrogativi che scuotono l’Italia profonda, quella che non si vede, ma c’è.
Questo nostro patrimonio oggi è il più attrezzato a contrastare una destra che a sua volta è interprete di un pensiero reazionario generato dalle pagine più buie della storia di questo Paese.
Ma appunto per questo nella discussione tra noi credo di avere sempre qualcosa da imparare. Renato Lori, il partigiano Cric, una sera di tanti anni fa, davanti a un piatto di tortelli, mi disse: “Le forze reazionarie nel nostro Paese sono forti e hanno radici profonde, e non possiamo sottovalutarlo mai. Ma ti assicuro che in egual misura sono al tempo stesso consapevoli del fatto di avere un grande argine davanti a loro, e quella diga siamo noi, gli antifascisti e i progressisti.”
E me lo disse con gli occhi velati.
Vi ho voluto raccontare questo aneddoto perché credo intimamente che le classi dirigenti dovrebbero avere il compito di leggere le situazioni prima di altri, dico dovrebbero perché nessuno ha la sfera di cristallo ma questo tema necessita di una postura che a mio avviso deve venire prima di ogni altra legittima burocrazia fatta di sacrosanti obblighi e paletti, senza però diventarne schiavi o limitarsi al ruolo di passacarte. Questa è la definizione alta del termine politica. Le classi dirigenti degne sanno discutere e mai come ora la discussione su un mondo che è già cambiato dobbiamo saperla affrontare.
Chiamiamolo il nuovo impianto di un pensiero su libertà e democrazia, su pace e dialogo tra le religioni, tra i movimenti e l’associazionismo, che sfidi le destre nel segno della speranza contro la paura.
In questa sede vorrei però iniziare a parlare con voi di futuro prossimo della nostra Associazione. Tra meno di un anno e mezzo andremo a congresso. Sarebbe forse il caso di mettere mano allo statuto e al regolamento, ma lo affronteremo a tempo debito, tuttavia vi confesso che faccio parte di quelli che pensano che cinque anni tra un congresso e l’altro siano un tempo politico giurassico che non possiamo più permetterci. Il mondo viaggia a velocità massima e inevitabilmente si perdono pezzi importanti. Credo che la durata di un mandato non dovrebbe superare i tre anni, vedremo cosa deciderà il congresso nazionale del 2027. Nei due congressi precedenti la mozione non ha avuto successo ed è stata respinta. A mio modo di vedere i tempi sono maturi, rimaniamo in attesa.
Sinceramente, non so dire se tra meno di due anni saremo ancora nella identica voragine politica in cui viviamo oggi.
Però credo di avere una certezza: che aldilà di chi ricoprirà ruoli specifici pro tempore, ANPI dovrà sempre interpretare il proprio ruolo in maniera istituzionale ma anche di avanguardia sociale. Per questi motivi quindi, oggi, in occasione di questa assemblea dei presidenti di sezione, vorrei rivolgervi un appello sincero che sale spontaneamente dalle nostre profonde radici antifasciste e che hanno a cuore il futuro della nostra Associazione. Impegniamoci, impegnatevi affinché una nuova generazione possa entrare con rinnovato entusiasmo e spalancare ulteriormente le finestre della memoria. Come avvenne nel 2006, nel congresso di Chianciano, dove le partigiane e i partigiani con un gesto generoso e lungimirante, decisero di aprire le porte alle nuove generazioni di antifascisti. Occorrerebbe una nuova Chianciano anche sul nostro territorio. Ne approfitto quindi per esprimervi il mio e il nostro sincero ringraziamento per quello che state facendo e per quello che farete con impegno nei vostri territori. Sarà importante operare affinché una nuova nidiata possa prendere in mano la bandiera della pace e della tolleranza, investiamo quindi sui più giovani, diamo loro le chiavi per un mondo nuovo che abbia radici antiche, diamo loro fiducia, sapranno raccogliere il meglio e portarlo avanti. Abbiamo il dovere morale di provare ad immaginare l’ANPI del futuro e il futuro di ANPI.
Perché, se così non fosse avremmo la responsabilità di consegnare alla destra peggiore l’opportunità di stravolgere in via definitiva l’ordinamento costituzionale della nostra democrazia.
Ma questo non può e non deve accadere.
E allora discutiamo, senza cadere nell’errore di crederci insostituibili. Non l’ho mai fatto ma oggi spero me lo concederete, vorrei citare qualcosa di intimo, una frase di mio padre, il quale mi diceva sempre che al cimitero della Villetta c’è pieno di insostituibili. Tutti siamo importanti e fondamentali ma l’aspetto che ci deve contraddistinguere deve essere quello che ci vede protesi verso chi rappresenta nuove gambe, nuove braccia e soprattutto nuove teste pensanti che dovranno portare avanti questo patrimonio di ideali e di storia, diversamente saremo destinati a soccombere innanzi alla storia.
Se serve, cambiamo quello che si deve migliorare.
Quello che deve rimanere chiaro è il traguardo da tagliare, perché comunque la si pensi, dovremo farlo tutte e tutti assieme.
Concludo anticipandovi che è nostra intenzione convocare prima della fine di novembre un’assemblea allargata a tutti i Comitati di sezione per dare seguito e proposte a ciò cui vi ho accennato.
Grazie.