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Modello Valditara

«Condividiamo profondamente le preoccupazioni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione che ha espresso parere negativo sulle nuove Linee guida dell’educazione civica proposte dal ministro Valditara. [...]

continua

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Il Consiglio ha giustamente criticato l’approccio fortemente individualista, l’inserimento dell’educazione finanziaria come mero strumento di valorizzazione e tutela del patrimonio privato, la mancanza di riferimenti espliciti all'educazione contro ogni forma di discriminazione e violenza di genere. Il Ministro aveva presentato il documento dichiarando di ispirarsi “al concetto di scuola costituzionale” in coerenza “con il nostro dettato costituzionale". Non cogliamo tale coerenza. Dobbiamo riprendere lo spirito costituente. Per questo l’educazione civica deve avere lo scopo di promuovere il senso civico e formare cittadini consapevoli, responsabili, critici e informati sui propri diritti e doveri, e deve porre al centro della sua attenzione il valore e la dignità della persona umana, al fine di determinare la formazione di cittadini attivamente coinvolti nella vita della comunità, capaci di contribuire positivamente alla crescita di una società sempre più complessa. Ci auguriamo che il ministro accolga le riflessioni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e apporti le necessarie modifiche alle Linee guida dell’educazione civica per un progetto di società pienamente fondato sulla Costituzione».


Paolo Papotti

Responsabile nazionale formazione ANPI

anpi valditara

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Ricordando Mariano Lupo

Intervento ANPI Provinciale di Parma

52° anniversario dell’omicidio di Mariano Lupo (1972-2024)

Parma, 25 agosto 2024 Stefano Cresci

Carissimi amici, carissimi compagni,
permetteteci di iniziare con alcuni saluti e ringraziamenti. Intanto al Sindaco di Parma, Michele Guerra. La città è decorata con la medaglia d’oro per lo straordinario apporto durante la guerra di Liberazione. È molto significativa la sua presenza qui, oggi. Alle organizzazioni, movimenti e le associazioni antifasciste, ai rappresentanti e agli attivisti dei partiti e dei sindacati intervenuti, e a tutti voi per aver scelto di esserci e condividere questa raccolta e significativa commemorazione.
Lasciamo per ultimi, ma non certamente per importanza, i famigliari di Mariano.[...]

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Credo sia importante oggi, in occasione dell’anniversario della sua morte, partire invece dalla vita di Mariano Lupo. 

Mario e la sua famiglia arrivarono nella seconda metà degli anni Sessanta, quando pressante era la richiesta di lavoratori per iniziare le opere edilizie della nuova città, negli anni del boom delle costruzioni, dei piani di edilizia economica residenziale e delle trasformazioni urbane.

I desideri di Mario erano quelli di un ragazzo diciannovenne che, partito da un piccolo paese dell’entroterra siciliano, arrivava in una città del nord per cercare condizioni di  vita migliori per sé e la sua famiglia e, in senso lato, costruire una società più giusta e umana. Queste idee erano condivise da tanti operai, disoccupati, studenti e, anche dagli stessi partigiani, che si trovavano insieme per praticare obiettivi di solidarietà, difesa e ampliamento dei diritti. Nell’estate del 1972 l’Italia era un Paese in piena trasformazione, attraversato da un esteso risveglio sociale, dalla presa delle piazze di migliaia di giovani. Mariano era uno di quei giovani. 

In quei tempi di grandi trasformazioni, subentrava poi un ulteriore problema molto grave: il neofascismo in quegli anni vedeva Parma, città simbolo dell’antifascismo grazie ai fatti successi 50 anni prima con le Barricate e, successivamente, con la Lotta di Resistenza, un bersaglio da colpire. 

Vi era l’idea di fomentare la paura e l’insicurezza nell’opinione pubblica – attraverso bombe in banche, piazze e treni – per favorire una svolta antidemocratica, per reprimere quella partecipazione politica e disgregare quella ancor giovane democrazia. Dentro questo nefasto disegno fu lasciato ampio spazio ai gruppi neofascisti aventi la violenza come elemento centrale del loro agire politico, a latere del Movimento sociale italiano ma da esso, in alcuni casi non controllabili o spesso tollerati, che si muovevano con aggressioni, pestaggi e piccoli attentati.

In questo quadro si colloca il fatto tragico che ricordiamo oggi.

"Mario, operaio immigrato comunista, ucciso dall’odio e dalla violenza dei fascisti”: con queste parole la targa posta sul luogo dell’omicidio, racconta ciò che accadde a Mariano "Mario" Lupo.

La sera del 25 agosto 1972, all’ingresso del Cinema “Roma” a Parma, venne aggredito, accoltellato e ucciso da un gruppo di neofascisti. L’omicidio era volontario e la matrice era inequivocabilmente inseribile nella violenza politica neofascista, come decretò la sentenza in via definitiva.

La città restò attonita ma reagì con vigore e gli stessi funerali furono un’enorme risposta democratica e antifascista. In Piazza Picelli, nel cuore del quartiere popolare dell’Oltretorrente, Giacomo Ferrari - il vecchio sindaco comunista e comandate partigiano “Arta”- tenne l’orazione funebre davanti alle bandiere a lutto di tutti i partiti, ai gonfaloni delle associazioni democratiche e dei comuni, agli striscioni del movimento di fronte a una folla impressionante per la nostra città. 

Anche nel 1973, l’Avvocato Primo Savani – partigiano e politico molto conosciuto - allora presidente dell’ANPI commemorò in un comizio “la figura del giovane Lupo”. 

L’assassinio di Lupo si inseriva in una lunga scia di omicidi di militanti dei movimenti in Italia ed è il culmine delle aggressioni promosse nella nostra città. In questo senso, giustamente, all’epoca, si disse che la morte di Lupo era  in qualche modo “annunciata”: tra il 1968 e il 1972, le minacce, gli agguati, le violenze e le esplosioni di matrice neofascista ebbero una notevole ascesa.

Il processo d’appello si concluse il 15 giugno 1976, ad Ancona, con un inasprimento delle pene per i colpevoli, già riconosciuti colpevoli in primo grado. Secondo i giudici, l’aggressione era stata “decisa, preordinata ed attuata da una sola parte contro l’altra che si limitò, peraltro con scarsissima efficacia, a difendersi”. Nella sentenza definitiva si legge ancora: “Non possono dunque esservi dubbi sul fatto che, i giovani missini, quella sera, avevano in animo di fare qualcosa e si erano preparati in tal senso”. 

In quel fatto tragico si ritrovano molti dei protagonisti di quella fase storica: un piccolo gruppo di picchiatori della destra radicale, armati di coltelli, già conosciuti alla Questura per le loro azioni squadriste; un giovanissimo operaio, immigrato dal Sud in cerca di riscatto, attivista della sinistra rivoluzionaria di Lotta continua che sognava, insieme ad altri giovani, un mondo diverso; una città, distintasi per il suo antifascismo, che vide nella morte di quel giovane il perpetuarsi del sacrificio di altri suoi figli nella Lotta di Resistenza.

Anni inquieti, pieni di sangue dove le battaglie politiche venivano combattute purtroppo anche con la violenza, ma la Repubblica aveva “tenuto” e, grazie a quella società in fermento, alla stagione di rivendicazioni dei diritti operata da quei tanti giovani, e ai rappresentanti politici di indubbia qualità, provenienti ancora in larga parte dalla Resistenza, si era concretizzata una grande stagione di conquista dei diritti civili e sociali.

In un decennio si approveranno varie leggi fondamentali come lo Statuto dei lavoratori, nel maggio del 1970, e a dicembre dello stesso anno, la legge Baslini-Fortuna, che introduce il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano. Nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, viene riconosciuta la parità di diritti all’interno nella coppia.

Ancora nel maggio del 1978, la Legge Basaglia, che disponendo la chiusura dei manicomi ha segnato una svolta nel mondo dell'assistenza ai pazienti psichiatrici, una cesura col passato e sulla strada della dignità. Nello stesso mese, il 22 maggio, viene approvata la Legge 194, che depenalizza e disciplina le modalità di accesso all'aborto.

La memoria di Mariano Lupo si è persa per un lungo periodo già dalla fine degli anni Settanta per ragioni storiche e politiche, per almeno venti anni, ma da qualche anno si è deciso di riportare Mariano Lupo e quel periodo storico all’attenzione della città di Parma.

La nostra storia è un patrimonio da non disperdere proprio per la nostra gente.

Crediamo essenziale fare memoria perché molto spesso, anche in forme diverse, la storia si ripete e la consapevolezza di ciò che è stato, è l’unico vero antidoto per difendere la nostra democrazia e contrastare pericolose derive di odio, di violenza e prevaricazione, di razzismi e discriminazioni, lottando per la realizzazione concreta della nostra Costituzione e di un Paese con minori disuguaglianze socioeconomiche e una rinnovata giustizia sociale. 

Per far ciò è certamente necessario far comprendere ai nostri concittadini, in particolare ai più giovani per varie ragioni comprensibilmente delusi, che l’impegno politico è la più alta forma di servizio alla Comunità. La politica, quindi, può e deve divenire lo strumento democratico fondamentale per creare una società diversa, a patto che si costruiscano le fondamenta necessarie: consapevolezza, conoscenza storica e capacità critica di valutazione dei contesti.  

Questi sono gli obiettivi prioritari da perseguire in un quadro politico nazionale e internazionale incapace di rispondere alle enormi sfide che sono dinnanzi a noi, che non ha saputo neppure evitare il ritorno della guerra in Europa e altri conflitti altrettanto sanguinosi che funestano questo mondo. La nostra fallimentare società neo-consumistica dominata dalla grande finanza e da piccoli, grandi o grandissimi centri di potere, che si nutrono delle divisioni sociali e alimentano le disuguaglianze, sta provocando guerre e miserie in un dejà-vu intollerabile.

L’idea di società competitiva che produce scarti, soprattutto umani, povertà dilagante e alimenta la violenza tra gli strati più poveri della popolazione non può rappresentare il futuro di questo Paese e del mondo. 

Voglio esser chiaro oggi. Esiste grande preoccupazione per la proliferazione di organizzazioni neofasciste e neonaziste che dovrebbero essere immediatamente sciolte in base alla Legge, ma ancor più preoccupano tentativi sempre più evidenti di negazione, equiparazione o edulcorazioni della nostra storia recente e le riforme costituzionali tese a distruggere la Carta costituzionale in profondità, nella sua essenza vera, operate da forze politiche che non fanno mistero di rifarsi ad una destra reazionaria, già conosciuta tragicamente in questo Paese.

Le responsabilità che ci attendono sono molte, l’obiettivo è difficile da raggiungere ma non possiamo sottrarci a questa responsabilità. Dobbiamo riprendere dalla nostra storia e dai valori della Repubblica e riportare all’impegno tante persone deluse e indifferenti.

Mariano sarebbe stato ancora qui con noi a lottare quotidianamente per un lavoro che sia dignitoso e rappresenti un modo per riscattarsi socialmente, contro le discriminazioni vergognose di genere e i razzismi, per l’accesso all’istruzione e a un potenziamento del Sistema culturale veramente inclusivo, per la preservazione dell’ambiente e la difesa di una Sanità pubblica universalistica. In altre parole, un Paese più umano e giusto dove le persone siano veramente al centro del dibattito pubblico. 

Credo che, come molti giovani inascoltati anche oggi, si impegnerebbe ancora e per questo Mario, così veniva chiamato dagli amici, vive con noi nell’impegno di tanti giovani e meno giovani che cercano di costruire un mondo migliore in cui vivere. Il nostro.

Ciao Mariano.

Ora e sempre (più) Resistenza.


Mariano Lupo 52°anniversario

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Comitato Provinciale

23 marzo 2024
relazione politica di Nicola Maestri
Presidente Comitato Provinciale ANPI

Da anni (oramai) leggo quasi quotidianamente i tanti commenti ai post che mi capita di condividere sui social e altri mezzi di comunicazione. Alcune presenze sono divenute per me un appuntamento fisso e il dialogo che si è generato si avvicina nello spirito a una comunità dove ci si ritrova. È quello che poi mi capita in maniera analoga quando incontro voi, compagne e compagni di ideali che nelle sezioni territoriali vi impegnate con passione e dedizione. Parto da questo concetto perché credo occorra prendere atto che anche questo è un canale di informazione importante, non l'unico ovviamente, non fraintendetemi, ma da non sottovalutare. Sono sempre meno purtroppo i luoghi fisici dove è importante e fondamentale confrontarsi e dibattere. [...]

continua

[...]

Per alcuni siamo considerati vetusti e nostalgici, ma il confronto e l'incontro sono veramente il sale della democrazia, che invece vogliono oggi giorno imporci

etichettando in modo sprezzante come superfluo se non peggio. In un mondo che inequivocabilmente vira verso orizzonti cupi noi di ANPI tenacemente intendiamo navigare in direzione ostinata e contraria, come direbbe il poeta.

Questa premessa per dire che sono colpito e allarmato dal clima che si va alimentando. Proviamo a fare mente locale e pensiamo a questo senso diffuso di intolleranza verso l’altro, a episodi che vanno oltre la distanza o il dissenso da una posizione che non si condivide.


Quanto pesa su tutto questo la guerra?

Cioè le due guerre che si consumano nel cuore d’Europa e in qu ella striscia di terra dove dopo trentamila morti (la metà bambini e minori) ancora migliaia di camion con beni di prima necessità restano bloccati al valico di Rafah?

Sono convinto che pesi tanto.


Le immagini e testimonianze di quelle tragedie e di un dolore senza sbocco (apparente) esasperano gli animi e ostruiscono i sentieri dell’ascolto. Rimbalzo come tutti da un reportage alle ricostruzioni storiche.

Se guardo all’Ucraina mi rendo conto che in due anni ho letto libri e analisi che per tutta una vita avevo largamente ignorato.

Ascolto voci che rimpallano le cause, e retrodatano le colpe. La guerra è iniziata dieci anni fa in Crimea e si è protratta nel Donbass.

Certo. È così.


Da lì un primo bivio, tra chi finisce col giustificare l’invasione russa (se non in forma esplicita marcando la complessità del processo storico) e chi, pure scorgendo quella medesima complessità, antepone il diritto sovrano a ogni altro pregresso.


A Gaza questo dualismo emerge con maggiore forza (e conseguente polemica). Se attacchi la strategia omicida di Netanyahu senza citare l’orrenda strage di Hamas del 7 ottobre rientri nel perimetro dell’antisemitismo (per lo meno inconsapevole). Se muovi da quel 7 ottobre c’è chi aggredisce la logica indicando nei trentamila morti e prima ancora nel mezzo milione di coloni e prima ancora nella mancata osservanza di tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite sullo Stato palestinese l’origine dell’escalation di odio e distruzione.


E il punto qual è? Che ciascuna di queste affermazioni risponde al vero.


Ma dietro parabole così strazianti (neonati che muoiono di stenti, donne stuprate, corpi devastati e rubricati come danni collaterali) non può non esserci il tentativo (almeno l’intenzione) di arginare il male e proporsi uno schema mentale diverso.

Altre epoche e protagonisti lo hanno fatto.
Un nome, Nelson Mandela, ma certamente non solo lui.

Oggi di fronte allo strazio sembra invece antistorico invocare due popoli per due Stati. Analisti acuti rimuovono quel traguardo come improponibile.

Altre voci, talvolta anche le più impensabili, declinano verso posizioni marginali o estreme e tutto concorre a comprimere speranze che in altri momenti si erano pure imposte. Un lento proseguire dove distinguere tra Israele e la sciagura di chi oggi lo governa o tra i terroristi di Hamas e il popolo palestinese si fa sempre più esercizio retorico quando dovrebbe essere l’alfabeto che non si arrende alla guerra.

Alle guerre.

Alcuni giorni fa a Roma la Cgil, l'ANPI e altre associazioni hanno promosso una grande manifestazione.

La volontà è una e semplice: far cessare le armi, fermare le bombe, soccorrere la gente stremata di Gaza, liberare gli ostaggi ancora prigionieri, e riaprire, allargare, lo spiraglio di una conferenza internazionale con una forza militare su quel campo di macerie in vista di una lenta ricostruzione.

Provare ancora, nonostante l’orrore di questi mesi (e anni) a non chiudere il libro della storia dovrebbe essere un dovere morale.

Ma se l’intolleranza s’impone quella speranza si annulla. E dopo rimane solo l’onda dell’odio a concimare cinismo e violenza.

Non può e non deve essere.

Mi sembra inoltre doveroso un passaggio sul premierato. Purtroppo se non interverranno fatti nuovi e significativi capaci di condizionare un sentimento prevalente nel paese noi questa volta corriamo il rischio serissimo di perdere il referendum.


Io penso che questa sia la ragione prima e fondamentale che deve spingerci a impostare la nostra opposizione alla proposta di premierato in una chiave che non ci schiacci sulla linea di un conservatorismo mai come adesso pericoloso perché poco efficace.

Quindi, sul piano del metodo, dico bene elaborare una serie di proposte capaci di delineare un progetto allo stesso tempo innovativo e alternativo alla riforma incostituzionale della destra.

Nello specifico la tesi di un presidenzialismo sgangherato nel quale saremmo già pienamente immersi e che trova nella vita dei partiti, in parte nel potere solitario di sindaci e governatori, ma soprattutto nel decisionismo di Palazzo Chigi con un abuso quotidiano di decreti e fiducie, la forma della sua espressione.

Non mi convince la lettura della loro proposta come una distrazione di massa dai fallimenti dell’azione di governo: Giorgia Meloni nel discorso della prima fiducia rivendicò quanto era scritto nel programma elettorale di Fratelli d’Italia (l’elezione diretta del presidente della Repubblica).


Continuo a credere che per loro questa riforma rappresenti il vero passaggio decisivo non solo di questa legislatura: accreditarsi come nuovi padri e madri di una costituzione rivista nel punto nodale della forma di governo e che archivia, questa volta definitivamente, la lunga stagione della discriminante antifascista.

Allora la domanda è quanto dobbiamo investire in termini polemici sullo scontro frontale rispetto a questo snodo?

Io penso che non possiamo ignorarlo perché è uno di quegli argomenti che se gestito con accortezza parla alla sensibilità di un pezzo importante del paese (non voglio dire un pezzo maggioritario, ma certamente un pezzo che nel momento del bisogno è disposto a uscire di casa e andare a votare contro una riforma che voglia aggredire alcuni dei pilastri costitutivi dello spirito costituente).

È chiaro che ci sono altri aspetti fondamentali a partire dal capitolo decisivo della legge elettorale (ogni sistema presidenziale che si accompagni al proporzionale alimenta una proliferazione dei partiti con la conseguenza di aumentare instabilità e conflitti, cioè esattamente l’opposto dei propositi annunciati).

Infine, a volo di uccello, una questione che riguarda la nostra Associazione.

In questi giorni, io, come immagino tanti di voi, ho appreso delle dimissioni di Roberto Cenati dalla carica di Presidente provinciale di ANPI Milano. Me ne guardo bene dal voler entrare in questioni che non conosco direttamente. Ma se ci definiamo un'associazione democratica, dobbiamo accettare e dibattere anche con chi ha sensibilità differenti, anche con chi ha posizioni minoritarie. Diversamente non potremo definirci un'associazione pluralista e democratica.

Guardate, so che sul termine “genocidio” ci sono diversi studi su quando sia opportuno definirli tali o meno. Questa definizione non esisteva prima del 1944. Si tratta di un termine molto specifico, che indica crimini violenti commessi contro determinati gruppi di individui con l’intento di distruggerli.

I Diritti Umani, così come stabilito nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazione Unite del 1948, riguardano i diritti fondamentali degli individui.


Se vogliamo trarre una lezione da questa vicenda, qualora ce ne fosse ancora bisogno, è che è necessario perseguire con determinazione a partire dal linguaggio, dal modo di porsi, e nella quotidianità, l'utilizzo prezioso del breviario della tolleranza, dell'inclusione, della solidarietà.

Senza dimenticare mai che ANPI è la casa di tutti gli antifascisti, non un piccolo partito. Non una congrega di carbonari. Siamo Ente Morale, non mi stancherò mai di 
ripeterlo, siamo parte integrante delle Istituzioni e come tali dobbiamo comportarci. Senza seguire le onde emozionali del momento.

Le Partigiane e i Partigiani, attraverso lo Statuto scritto di loro pugno, ci hanno autorizzati a proseguire sul solco da loro tracciato, di questo facciamone tesoro in ogni momento del quotidiano e nelle nostre strategie politiche.


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Come ripensare alla vicenda dei fratelli Cervi?

Gianfranco Pagliarulo Presidente Nazionale ANPI

Oggi tira aria di autoritarismo: come ripensare alla vicenda dei fratelli Cervi? Sui fratelli Cervi c’è oramai una sterminata letteratura. Certo, si tratta di un evento simbolico anche a causa dell’unicità della vicenda: sette fratelli, tutti i maschi, prima arrestati da un plotone della Guardia Nazionale Repubblicana, in sostanza i fascisti di Salò, poi fucilati per rappresaglia, assieme all’amico fieramente antifascista Quarto Camurri, il 28 dicembre 1943. Esattamente ottant’anni fa. [...]
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[...]

Ed è un evento simbolico non solo la loro morte, ma anche la loro vita. Erano portatori col padre di una cultura contadina libertaria e insofferente al pregiudizio e all’oscurantismo, frutto di una interessante commistione fra una originaria formazione cattolica e la successiva energia del pensiero marxista e in generale socialista. La famiglia era una comunità coesa e aperta, con le sorelle, le mogli, i figli, il padre Alcide e la madre Genoeffa. Diversamente dalla grande maggioranza degli altri contadini, non solo sapevano leggere e scrivere, ma costituirono nel loro casale una vera e propria biblioteca clandestina di testi di saggistica, letteratura, scienza e tecnica. Fu grazie a quelle letture che trasformarono il loro campo difficile in una terra feconda, aiutati da un trattore, mezzo di lavoro non frequente in quei tempi e in quei luoghi; un trattore che, assieme al mappamondo, fa parte integrante del mito dei fratelli Cervi. Erano antifascisti, a cominciare da Aldo, il più autorevole dei fratelli, comunista, come sottolineato dal figlio Adelmo in polemica contro i tentativi di cancellazione e di rimozione persino delle idee di Aldo. La loro abitazione si era di fatto trasformata in un cenacolo permanente di oppositori al regime. Tutto ciò spiega il mito resistenziale dei sette fratelli: l’anticonformismo, il fascino per lo studio, l’attenzione verso la modernità, lo spirito comunitario, la visione internazionalista, l’enormità della loro fucilazione. Un mito la cui eco si coglie nei versi di Quasimodo: “Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore, non per memoria, ma per i giorni che strisciano tardi di storia, rapidi di macchie di sangue”. 80 anni dopo c’è da chiedersi come si può interpretare la loro vicenda e il loro sacrificio al tempo della retorica sull’italianità, sul destino, sulla “Nazione”, quando si torna a pronunciare senza vergogna il motto “Dio, patria e famiglia”, improvvidamente scippato dal fascismo all’incolpevole Mazzini, quando la presidente del Consiglio, normalmente loquace, in un anno di governo non ha mai pronunciato la parola “antifascismo”, quando il presidente del Senato afferma di non averla mai letta sulla Costituzione. Tira aria – diciamolo – di autoritarismo mettendo assieme i tasselli del puzzle: premierato, autonomia differenziata, decreto anti-rave, decreto Cutro, decreto Caivano, pacchetto sicurezza, abolizione del reddito di cittadinanza, contrasto al salario minimo, attacco al diritto di sciopero, cariche della polizia e persino identificazione di chi si permette di gridare “Viva l’Italia antifascista!”. Ebbene, proprio oggi, in questo tempo di guerre e di autoritarismi, ci serve più che mai l’apparato biografico di Aldo, dei fratelli, dei genitori. Ci serve il loro andare in direzione ostinata e contraria ad ogni oscurantismo, la loro attenzione alla modernità, la passione per la lettura e per la cultura, il loro essere e fare comunità. C’è in quelle biografie un’idea di libertà, eguaglianza e pace e una pratica di sfida aperta al potere fascista. Ci servono, simbolicamente, i libri, il trattore, il mappamondo, per sfuggire alla trappola della banalizzazione della realtà, per riconoscerne la complessità, per sfuggire alla logica binaria dell’amico/nemico, per fondare una visione del mondo e un possibile orizzonte di cambiamento che metta al centro l’umanità, per mantenere irremovibile il legame fra libertà ed eguaglianza, per costruire una moderna cultura antifascista alimentata dal testo costituzionale e dalle sue origini ideali, e cioè dalla Resistenza. C’è sempre un’idea di futuro nella tragedia dei Cervi, persino nelle note parole di Alcide: “dopo un raccolto ne viene un altro”. E mi pare che una delle ragioni del mito sia proprio questa: nulla rimane uguale, tutto cambia, e non esiste nessun destino prescritto, nessun fatalismo, persino davanti ad un sacrificio supremo, come la fucilazione di sette fratelli. Dipende dalle persone in carne ed ossa, dalle donne e dagli uomini viventi. Se dopo ogni notte sorge l’alba, se dopo ogni risacca ritorna l’onda, allora dopo ogni resistenza ci sarà una liberazione.

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Comitato Provinciale 16.12.2023

Analisi politica di Nicola Maestri Presidente Comitato Provinciale ANPI Parma

Buongiorno a tutte e tutti voi e benvenuti a questo Comitato Provinciale che ha l'ambizione di focalizzare i suoi sforzi sulla situazione politica preoccupante che va profilandosi. Il contesto internazionale vede un’angosciante recrudescenza del conflitto israelo palestinese. ANPI ha fermamente condannato i vili attacchi compiuti da Hamas sulla popolazione civile israeliana, perché di questo si è trattato. Ma come non evidenziare la reazione scomposta, abnorme e disumana che l'esercito israeliano sta compiendo quotidianamente sulla striscia di Gaza e sul popolo palestinese, che da anni subisce una ghettizzazione e una restrizione sempre più stringente delle più elementari basi di sopravvivenza. I morti sulla popolazione civile hanno superato le quindicimila unità. È notizia ormai di dominio pubblico che in questo micidiale territorio i bambini e non solo loro, stiano morendo di fame. Tutto ciò è sconvolgente. Avrete notato che di fatto, questo nuovo inasprirsi del conflitto mediorientale ha derubricato totalmente la guerra in Ucraina. [...]

continua

[...]

Ritengo che su questi metodi così creativi e disinvolti da parte di chi gestisce l'informazione dovremmo fare una seria riflessione. Nei giorni scorsi ho avuto l'opportunità di essere presente al teatro al Parco al monologo di Roberto Saviano.  La serata verteva sull'utilizzo dei podcast, l'uso delle parole e l'informazione “drogata” cui siamo costretti a subire. Il nocciolo della questione è proprio questo; viviamo in un'epoca in cui la propaganda arriva prima della notizia, ragion per cui tale notizia, anziché arrivare asciutta e scevra da pre confezionamenti viene data in pasto al consumatore finale deformata e indirizzata già in un determinato modo. Questo è un enorme problema, perché una buona fetta di popolazione anziché differenziare, selezionare e approfondire, si accontenta dell'informazione main stream e ciò che passa il convento è questo. Per cui la guerra in Ucraina, che procede imperterrita con il suo carico di morte e distruzione, viene relegata come quinta, sesta notizia, o addirittura cancellata dai palinsesti televisivi e dalla carta stampata, mentre si è discusso per settimane del ciuffo di Gianbruno, piuttosto che condannare il comportamento di questo signore. Purtroppo è con queste gravi lacune informative che dobbiamo misurarci, ma al tempo stesso occorre sfruttare ogni pertugio democratico per rilanciare il nostro operato e fare in modo di far giungere alla più vasta platea quello che è il pensiero della nostra Associazione. Senza nessun dubbio viviamo un periodo difficile della vita democratica. Non era mai successo in tempi recenti che si mettesse in discussione il diritto di scioperare. Ma oggi assistiamo anche a questo grave affronto che crea un precedente molto pericoloso. L'articolo 40 della Costituzione dice che il diritto di sciopero è un diritto individuale, che può essere esercitato soltanto in forma collettiva. L'articolo 40 riconosce dunque il diritto allo sciopero. 

È piuttosto evidente che c'è una parte cospicua di questa compagine governativa che non perde occasione per cercare di sgretolare i diritti conquistati negli anni e ciò deve preoccuparci. Un esempio tangibile è la “riforma” costituzionale approvata dal Governo Meloni. Temo sia stata progettata per assestare la spallata finale al progetto politico della Costituzione. È la rancorosa vendetta di un manipolo di reduci ideologici del fascismo contro lo spirito del 1948: il tentativo di liquidare l’impianto partecipativo che, enunciato nell’articolo 3, permea tutta la Carta. Fuori i cittadini dai piedi del potere: in un clamoroso ritorno al rapporto diretto tra il capo e la folla che, ogni cinque anni, lo elegge. È la riduzione dell’aula parlamentare, vista ancora come sorda e grigia, a un bivacco di manipoli: i manipoli di chi, magari con il 20% dei voti o nemmeno, se ne prenderà il 55%, rendendola semplicemente inutile. Una claque del capo.

Non intendo arrivare a conclusioni affrettate ma trovo questa riforma inutile, con le dovute cautele un po' come i consigli comunali e quelli regionali svuotati dalle leggi presidenzialiste che hanno aperto la breccia culturale da cui sono passate tutte le tentate riforme che volevano, e ora di nuovo vogliono, il “sindaco d’Italia”. È in questi perversi meccanismi locali, oltre che nella parentesi nazionale (presto chiusa) dello Stato di Israele, che si trovano i veri antecedenti di questa mostruosa idea del premierato elettivo. Perché è questo che va detto: non è presidenzialismo, è un mostruoso “capismo”. Tornano folgorantemente attuali le parole di Lorenza Carlassare, la giurista scomparsa lo scorso anno: «il presidenzialismo all’americana in Italia non lo vogliono, perché i poteri del presidente sono davvero limitati dal Parlamento e dal potere giurisdizionale, e allora vedono l’idea del semi-presidenzialismo, come un filone che può portare la concentrazione dei poteri in una persona sola. Questa è l’aspirazione». Un’aspirazione aggiungo, che qua, nel progetto dell’unico governo occidentale guidato da un partito di matrice fascista, si fa scoperta e anzi sfacciata nella formula del premier eletto: sarebbe un unicum mondiale. 

Nei suoi “appunti di Giorgia” (un abominio che ancora una volta solo la sfasciata informazione italiana poteva tollerare) la (anzi, il, virilissimo) presidente del Consiglio si aggira nella stanza di Palazzo Chigi che contiene i ritratti dei predecessori. Col ditino alzato stigmatizza la scarsa durata di ognuno dei presidenti «del Consiglio»: già, perché c’è un enorme non detto. In quella stessa sala, ma la telecamera si guarda bene dall’inquadrarlo, c’è anche (vergognosamente) il ritratto di Benito Mussolini: lui, sì, che è durato vent’anni!

Quel ritratto andrebbe rimosso (e al suo posto affisso un duro monito) non solo per i crimini atroci e devastanti di Mussolini e del suo totalitarismo omicida, ma anche perché quel governo fu illegittimo perché incostituzionale: «sotto questa finzione della monarchia di cui il fascismo ha mantenuto fino al crollo l’etichetta, da molto tempo non c’era rimasto niente di vivo: il re costituzionale non solo aveva cessato di essere costituzionale da quando aveva tradito il patto statutario, ma da quando aveva deferito al capo del governo tutti i poteri regi, aveva cessato di essere re. Di solito il colpo di Stato serve ad un sovrano costituzionale per rinnegare la costituzione … ma il monarca sabaudo ha fatto un colpo di Stato per conto altrui»,per dirla con le parole di Piero Calamandrei.

Ed è qui che il precedente, purtroppo, calza perfettamente per descrivere la riforma della nipotina (via Almirante) di un così orrendo nonno: anche il governo che dovesse formarsi dopo l’approvazione della “riforma” Meloni sarebbe incostituzionale: perché incostituzionale, cioè eversivo della lettera e dello spirito della Carta sarebbe la riforma, ancorché formalmente ineccepibile nei conteggi dei voti. Mai come e quanto oggi un governo della Repubblica ordisce, di fatto e nella legalità delle procedure, un attentato alla Costituzione: anzi, un colpo mortale.

È dunque il momento di una resistenza che usi ogni mezzo: ogni mezzo purché pacifico, incruento, costituzionale, legale. Ai cittadini, che nella mistificazione di Meloni dovrebbero avere più potere, dovremo chiedere: pensate di averlo avuto nei vostri comuni, nelle vostre regioni? La sanità della vostra regione, il cui capo eleggete direttamente, obbedisce ai vostri bisogni? Ebbene no, care cittadine e cari cittadini, questa è l’ultima rapina della nostra voce, l’ultimo borseggio della nostra sovranità. Se dovesse passare, voteremmo (ma in quanti?) una volta ogni cinque anni, e nel mezzo verrebbe buttata via la chiave della democrazia: saremmo prigionieri impotenti, molto peggio di oggi, nella galera dell’irrilevanza assoluta.

La parola, dunque, al popolo sovrano: in un referendum in vista del quale il fronte del No deve costruirsi fin da ora nel modo più ampio, fattivo e capace di prendere parola su ogni telefono, in ogni piazza, in ogni televisione. Come ha cantato Vinicio Capossela qualche settimana fa in un teatro Regio gremito, in uno splendido brano che invoca le staffette partigiane («Voi che passate il testimone /Perché arrivi più avanti, perché arrivi fino a noi / Che ancora abbiamo da resistere / Al mostro e alle sue fauci sepolte ai nostri piedi). Ecco, questa è la libertà: azione e responsabilità. Attrezziamoci. 

Commenti disabilitati su Comitato Provinciale 16.12.2023

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