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Lo sviluppo italiano continua poi a muoversi su due fronti, quasi come un doppio stato. Il definirsi della struttura nazionale istituzionale si allontanò quindi da un contro bilanciamento naturale e vitale dei poteri in uno stato democratico per avvicinarsi più ad un servilismo nonché utilitarismo amministrativo.
La situazione si è ripresentata con le dovute e sostanziali differenze al termine del secondo conflitto mondiale quando a prevalere fu il decentramento amministrativo e legislativo e un accentuato regionalismo. Ad influenzarne la scelta fu anche inevitabilmente l’esempio negativo e contiguo del regime fascista, ben innervato nella cultura mnestica del paese, il quale abolì la suddivisione del territorio nazionale in circoscrizioni e arrivò a sopprimere le autonomie locali.
A prevalere fu dunque la linea più particolarmente degasperiana, egli fin da giovane fautore del regionalismo, della maggiore indipendenza delle autonomie locali e del decentramento burocratico e soprattutto dei poteri. La linea del capo provvisorio dello Stato aveva forti radici che affondavano anche nella storica linea del Partito Popolare Italiano e di Papa Pio XI, quest’ultimo tra l’altro firmatario dei Patti Lateranensi.
“All’unità degli atomi si preferiva l’unità degli organi” diceva lo stesso De Gasperi. Il fatto che gli organi in Italia fossero così sbilanciati non costituì evidentemente elemento di sfiducia, così come la presenza di una criminalità organizzata presente e influente in più di ogni altro paese, sviluppatasi parallelamente all’unità del 1861, quando l’attenzione
dell’allora primo ministro Cavour si focalizzò nell’investimento univoco alla classe imprenditoriale e industriale del Nord abbandonando il Mezzogiorno e anzi trasformandolo in una “palla al piede del settentrione” più avanzato dal quale trarre forze vitali e utilitarismo mercantile. Questo già provocò grande spinta centrifuga nel Regno, squilibrio interno economico e quindi culturale, velocità di sviluppo differenti e crescita delle diseguaglianze.
Un primo solco nella frattura dell’unità con il proliferare di strutture mafiose che si incunearono nell’assenza e nei mancati adempimenti dello Stato. E infine lo sciagurato percorso attuale sulla struttura istituzionale regionale, sulle richieste di autonomie differenziate, anche se tecnicamente differenti tra loro ma che hanno in comune sicuramente la zona di provenienza: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, tre regioni settentrionali che nel solco della storia perseguono sicuramente e comprensibilmente interessi regionali convenienti ma che allontanano e colpiscono un’Italia già ferita.
Queste tre regioni hanno chiesto di trattenere il 90% del gettito fiscale proveniente dai cittadini, questo peserebbe sulle casse dello Stato per 190 miliardi di entrate in meno sulle 750 totali derivate normalmente da tale processo, circa un quarto del valore complessivo. Questo vuole meccanicamente dire, maggiore sviluppo ed efficienza per tali Regioni e meno per lo Stato nel suo complesso e quindi per risorse destinate alla equa redistribuzione, cioè automaticamente meno per chi sta peggio, meno per il Mezzogiorno, significa ancora una volta ampliare la differenza di velocità a cui le due o varie Italie sembrano andare.
Nel breve periodo è possibile che i veneti, i lombardi e gli emiliani possano godere di un effettivo maggior benessere, potendosi avvantaggiare di una quota cospicua di risorse che, invece, dovrebbero essere destinate alla redistribuzione sul territorio nazionale, ma al di là di ogni rilievo circa la violazione del principio di solidarietà sociale ed economica, al crollo sociale ed economico dei territori svantaggiati, non può che conseguire una crisi dell’intero sistema Paese.
Già oggi il divario è molto forte: Lo Stato spende per un cittadino del Centro-Nord 17.621 Euro, mentre per un cittadino meridionale 13.613 Euro. Pertanto, se lo Stato volesse spendere la stessa cifra pro capite senza togliere risorse al Nord, dovrebbe mettere a bilancio circa 80 miliardi in più per il Sud.
Ciò concretamente significa che il divario si aggraverebbe ulteriormente, con l’arretramento della presenza dello Stato: ovvero meno ospedali, meno scuole, meno infrastrutture, meno asili, meno musei e università, laddove già oggi mancano e nessuna perequazione sarebbe possibile.
L’autonomia differenziata da una parte contraddice e nega il principio di eguaglianza formale e sostanziale, dall’altra frammenta la naturale unitarietà funzionale delle infrastrutture del Paese, beni comuni della Repubblica, e dunque essa, anche al di là della disuguaglianza delle risorse economiche, crea disuguaglianze formali e sostanziali ed incide sulla funzionalità (e sulla competitività) delle grandi infrastrutture logistiche. Si pretende di regionalizzare la vera e propria “spina dorsale” del Paese, la scuola statale, sostituendola potenzialmente con 20 sistemi scolastici differenti, attribuendo alle Regioni la potestà legislativa sull’intera materia: sulle norme generali, sulle assunzioni del personale, sulla valutazione, in tema di formazione. Insomma, sul come e sul cosa insegnare.
Si tratta di un approccio modesto ed egoistico verso una serie di funzioni che, al contrario, dovrebbero rappresentare uno strumento dell’interesse generale. La configurazione di sistemi scolastici a marce differenti segnerebbe inevitabilmente il passaggio da una scuola organo dello Stato unitario e garante di un livello di istruzione analogo in tutte le regioni italiane, ad un sistema strutturalmente disuguale che forma studenti di serie A e di serie B.
In un tempo, più di altri, in cui la disgregazione e l’allontanamento dalle grandi istituzioni democratiche per smanie e tendenze machiste porta a isolamento e sfibramento, abbiamo affrontato e vissuto l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, la quale si è trovata a dover affrontare una pandemia in solitaria, un mai così frenetico e disordinato ricambio istituzionale, una costrizione del mercato europeo, il 58% della popolazione che oggi voterebbe per stare all’interno dell’Unione Europea, e tra altri e vari elementi un dato preminente: l’iscrizione ai propri atenei universitari da parte di studenti europei di fatto dimezzata.
Avremmo dovuto imparare da questa nefasta scelta, perché si crea dunque, soprattutto, una questione di opportunità, dove sta l’opportunità e l’investimento nel futuro di una nazione che atrofizza la propria appetibilità e il proprio afflusso culturale, dove sta l’opportunità, quindi, nel picconare l’unità di intenti e dei destini di una popolazione e di una istituzione per la frenetica affissione di bandierine da campagna elettorale permanente, da miti federalisti da sguainare o da storie pronte da confezionare e spedire all’elettorato del futuro. Nella politica della rivendicazione, della rappresentazione superiore alla realtà, diventa importante preservare la sostanza con maggiore puntualità e aprioristicamente rispetto a quella che è la velocità della strumentalizzazione.
Dove sta quindi, l’opportunità, in un’Italia divisa di fronte alla guerra alle porte, perché come dicevo in premessa la guerra è sempre alle porte, e a quelle di ognuno, anche quando sembra lontana. Nella stessa politica dell’apparenza, o del “clima d’opinione” come dice la storiografia, con che autorevolezza si presenta in diplomazia un’istituzione mortificata? E chissà con quale autorevolezza si presenta in diplomazia chi pone il segreto di Stato, come questo governo, sulle proprie forniture di armamenti per paura che quella stessa rappresentazione politica non gli si ritorca contro. Ora quindi, se non si è più in grado di farne una questione di sostanza, è ora di sostanziarne l’apparenza, perché la guerra si serve delle fratture come la gravità dello scarso calcestruzzo, chissà che nel giocare con le rappresentazioni non ci si ritrovi la realtà.
Mi chiedo questa Unità dove si possa trovare se non nei momenti di crisi, se non nella vicinanza all’estinzione, e per di più per molteplici motivi come il riscaldamento globale, una condanna non un rischio, e l’attualissimo sciagurato rischio della guerra mondiale nucleare. Sarà bene guardarsi attorno e capire qualcosa in più di come ci si guarda, per capire che questa richiesta di autonomia non riguarda solo l’Italia, per capire che la guerra non riguarda solo l’Ucraina, per capire che il riscaldamento globale non riguarda solo qualche isola del Pacifico o le nostre valigie per le vacanze.
Per tutto questo sarà bene guardarsi attorno. E la nostra Associazione può e deve guardarsi attorno e per questo può e deve svolgere un ruolo importante. Gramsci diceva: "Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri.
Basta tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e tutti, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza"