Orazione Ufficiale Eccidio Bosco di Corniglio
Carme Motta Presidente Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea di Parma
Sindaci, Autorità civili e militari,
Rappresentanti delle Associazioni Partigiane, Anpc, Alpi, Anpi, di cui porto il saluto quale Presidente Isrec,
Cittadini e cittadine,
sono onorata per l’invito, nell’80’ della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo e vi ringrazio.
Leonardo Tarantini, partigiano Nardo, scrisse che l’eccidio di Bosco di Corniglio fu “uno dei giorni più infausti della Resistenza parmense” con la perdita del Comando Unico delle formazioni partigiane parmensi.
I destini personali di quei partigiani si erano incrociati.
Giacomo di Crollalanza , comandante “Pablo” 26 anni, giovane ufficiale venuto dalla Sicilia, dopo l’8 settembre si unisce alle formazioni partigiane; aveva esperienza militare e capacità di stratega.
Con lui, quella notte del 17 ottobre 1944, Gino Menconi partigiano “Renzi”, toscano, di famiglia benestante , laureato, prima repubblicano poi comunista; Giuseppe Picedi Bonettini , partigiano
“Penola”, toscano, famiglia della nobiltà sarzanese, cresciuto con idee democratiche, tre partigiani di guardia Enzo Gandolfi e Domenico Gervasi , quest’ultimo carabiniere, entrambi della provincia di Parma, Settimio Manenti di Urbania, provincia di Pesaro.
Morirono tutti, sorpresi dalle SS tedesche, perché traditi. Si difesero strenuamente fino alla fine. Divennero leggenda.
La “settimana di lotta alle bande”, lanciata da Kesserling, raggiunse l’obiettivo più importante.
Dalle micidiali raffiche di mitra e dall’incendio si salvarono fortunosamente il Vicecomandante Giacomo Ferrari “ Arta” , Primo Savani “Mauri”, Boni, Pelizzari, Cipriani, Parisi, Zammarchi e pochi altri.
Ma non fu la fine. Non ci si poteva arrendere e nemmeno concedersi il tempo della disperazione. [...]
[...]
I tedeschi e i fascisti ci contavano; il colpo inferto era durissimo. Ma la storia andò diversamente.
Il 23 ottobre fu eletto il nuovo Comando Unico; comandante “Arta”, commissario politico Achille Pelizzari “Poe”, Leonardo Tarantini “ Nardo” capo di stato maggiore.
Loro ci sono alla sfilata del 25 aprile 1945 a Parma. Inizia la nuova Italia.
Quel 25 aprile la maggioranza di noi, per età anagrafica, non c’era ma abbiamo provato ad esserci dopo, come oggi, insieme ai giovani che hanno compreso il sacrificio di quelle vite per il futuro di tutti/e.
Resistettero per riportare al centro della comune convivenza la forza della ragione, contro l’ idea di morte salvifica del regime nei confronti di ebrei e oppositori o semplicemente diversi per l’deologia fascista e nazista, contro l’oppressione, la persecuzione, la guerra, l’ignoranza, l’indifferenza e la viltà di molte, troppe, coscienze; resistettero per restituire i più nobili ed insieme semplici sentimenti dell’animo umano che danno senso alla vita e la rendono degna.
Domandiamoci: la memoria della loro resistenza, di tutta la resistenza è ancora attuale o solo doveroso ricordo?
Rispondo convintamente sì, è viva e attuale perché parla all’oggi.
In situazioni, condizioni e contesti diversi siamo tornati ad avere su fronti opposti democrazia e totalitarismo, autocrazia nel nuovo gergo, pace e guerra, diritto e violenza; siamo di fronte, purtroppo, alla crisi dei modelli politici e sociali del secolo scorso.
Le destre estreme tornano ad essere punto di riferimento per ampi strati popolari in modo trasversale.
Prevale l’idea “dell’urgenza del presente”, così la definisco, come misura della vita delle persone; ma l’urgenza intesa come possibilità di risposta alle esigenze diffuse, dovrebbe risiedere nell’attività politica e di governo delle comunità, non essere il pensiero dominante, pervasivo e riduttivo dell’esistenza.
Eppure l’attuale coscienza pubblica sta dissipando la memoria come patrimonio morale e di valori condivisi, consapevolezza e responsabilità individuale; l’esito è che chi si erge a risolutore di tutto, a semplificatore della complessità, ottiene sempre più largo consenso, anche in Europa, in tutto l’occidente. La democrazia un intralcio superfluo da superare perché ostacola, rallenta, pone vincoli, alla decisione istituzionale e politica. Avvenne esattamente così agli albori dei regimi totalitari del secolo scorso, è così in paesi europei e non solo. Anche la libera stampa, oggi, è un problema. Deve essere “eco” del potere governante.
Il concetto di “forza”, soprattutto militare, è diventato il metro di giudizio con cui si può superare ogni limite; l’interesse economico il paradigma del confronto e della negoziazione.
Così il diritto e le organizzazioni internazionali non sono più riconosciuti, oscurati se non vilipesi, derisi, e dunque resi impotenti sebbene nati dopo i conflitti mondiali al fine di gestire e superare le cause che li avevano determinati.
Il mondo è cambiato, certo, tutto non può rimanere immutabile, a cominciare dalle istituzioni nazionali, europee, mondiali ma dipende “come “e “perché” si innova, se per allargare e consolidare la democrazia o restringerla.
Dal massacro del 7 ottobre 2023, per la maggior parte di giovani ebrei, fino alla immane e sconvolgente tragedia del popolo palestinese, la guerra nella “martoriata” Ucraina, come la definiva papa Francesco, dove ogni giorno anche lì muoiono bambini, poco più che numeri, i conflitti noti e sconosciuti mai risolti nel mondo, sono il risultato dell’orizzonte perduto del diritto e della giustizia sociale.
Per questo ogni spiraglio di far tacere le armi è una speranza da perseguire tenacemente.
Umberto Eco nel memorabile intervento alla Columbia University del 25 aprile 1995 per celebrare la liberazione dell’Europa, coniò il termine “fascismo eterno” che, scrisse, “ scaturisce dalla frustrazione individuale e sociale per crisi economica o politica , per i timori dei subalterni verso i più subalterni “.
Pericolo mai scongiurato riferito alla responsabilità della società che ha diritto a risposte ma che deve porsi anche domande.
Non basta indignarsi, non è più sufficiente opporsi, bisogna trovare un “senso” dentro il disordine, la paura, gli egoismi, la mancanza di sapere, di cultura.
Abbiamo delle solide bussole, la Costituzione antifascista, frutto della Resistenza, il Manifesto di Ventotene, il futuro dell’Europa, gli studi storici, le testimonianze dirette di chi visse le tragedie del passato e quelle del presente.
Abbiamo, però, necessità di esempi di coerenza, di lungimiranza, di compostezza, di generosità, non di fenomeni leaderistici, non di toni e linguaggi infamanti, volgari, aggressivi utili a suscitare istinti primordiali anziché il pensiero critico. Ne abbiamo bisogno in ogni campo di azione dell’attività umana.
Le nuove generazioni ci guardano e attendono segnali concreti di speranza, fiducia, credibilità da opporre agli orrori della disumanità.
Loro ci sono e vogliono contare. Sapremo stare al loro fianco adeguatamente?
La violenza va sempre respinta, ripudiata; fa il gioco di chi vorrebbe zittire il dissenso.
Se si vuole la pace la si deve praticare.
Grandi manifestazioni di popolo pacifiche sono quelle che i “potenti” allergici alla democrazia temono di più.
Tutti abbiamo bisogno di “sogni”, soprattutto i giovani; riabituiamoci a sognare e rendiamo i sogni tangibili, realizzabili, alternativi allo sgretolamento delle certezze; libertà, democrazia, uguaglianza che sembravano scontate e non lo sono più. Dobbiamo sognarle di nuovo.
I partigiani che oggi commemoriamo, il loro sacrificio che portiamo nel cuore, non si sono mai arresi pur consapevoli della possibile sconfitta, dell’inevitabile dolore per la perdita di chi lottava con loro.
Non avevano certezze sul futuro, lo immaginavano, lo sognavano; ci hanno creduto, hanno lottato insieme, oltre i loro personali convincimenti, le diversità sociali, politiche, religiose.
Hanno creduto che se non loro altri come loro ce l’avrebbero fatta.
Le loro morti non sono state inutili. Hanno salvato l’Italia, hanno salvato noi. Hanno consegnato il futuro. A quelli di allora e a noi oggi.
Per questo sono e saranno sempre con noi, vivi nella memoria presente. Ad indicarci la strada.
Una settimana fa ero sulla cima del monte Fuso; cammino tanto, quando posso, per passione, sui nostri monti; sul Fuso si trova il pannello dei “ sentieri resistenti”, come in molti altri luoghi, e quello dedicato alla festa per l’inaugurazione, il 18 agosto 1901, del monumento alla Madonna dell’Alpe. Una manifestazione per celebrare il nuovo secolo. Nessuno dei partecipanti avrebbe immaginato che 14 anni dopo sarebbe scoppiato il primo terribile conflitto mondiale.
“Oltre 5000 persone venute dalle parti più lontane della montagna reggiana e parmense “. Il pannello riporta l’articolo della rivista del periodo “Giovane Montagna”;
“ Fu un importante momento di coesione attorno a questo monte che univa invece di dividere. Dalla cima si vedeva Parma e tutte le altre vette dell’Appennino parmense e reggiano. La festa proseguì anche la sera.
Gli ultimi rimasti avevano accatastato le molte piante tagliate in diversi punti della cima e vi avevano dato fuoco: e l’allegra fiammata vincendo la scura tenebra circostante anche ai lontani e non ancora informati avrà portato nella notte stessa la notizia che la festa di monte Fuso era passata lietamente perché sulla vetta di esso si era acceso ad indicarlo un falò di gioia ed allegrezza”.
Ho riflettuto su questa semplice testimonianza di un tempo tanto lontano; anche noi, insieme, possiamo e credo dobbiamo riaccendere la gioia e l’allegrezza della vita, la sua bellezza anche nell’impegno quotidiano. E’ nelle nostre mani.
L’alba di un nuovo giorno arriva sempre; i partigiani lo sapevano, anche quelli che oggi ricordiamo, e non hanno mai dubitato che sarebbe stato un giorno di gioia per tutti. Finalmente liberi e in pace.
Il sogno divenne realtà.
Crediamoci!






