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eccidio del dordia – saluti ANPI Provinciale

Nicola Maestri 
Presidente Anpi Provinciale Parma


Con piacere porto i più sentiti saluti di Anpi provinciale e delle altre associazioni partigiane Alpi e Anpc. Vorrei utilizzare questo spazio per condividere con voi alcune riflessioni sulla

definizione della parola Scelta. A questa scelta appunto che i 18 ragazzi che oggi ricordiamo ci lasciano eredi di questo monito. Per rendersene conto basta aprire il vocabolario e constatare che essa ha numerosi sinonimi, ma nessun contrario. [...]

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Credo sia importante qui oggi ricordare l’articolo 3 della Costituzione, che affida alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Rimuovere cioè gli ostacoli che impediscono l’esercizio della scelta. Compito della Repubblica è dunque creare le condizioni perché tutti possano scegliere liberamente. Perché - è ovvio ma conviene ricordarlo- la facoltà di scelta si nutre della libertà, anzi delle libertà, intese in una accezione profonda, solidale, empatica. Libertà dal bisogno, libertà dalla malattia, libertà dal sopruso dei criminali e dalla sopraffazione dei pubblici poteri, libertà dallo sfruttamento (di cui questi anni ci offrono esempi sempre più frequenti, anche nelle cosiddette democrazie più avanzate come la nostra), libertà dall’ignoranza, libertà dall’altrui pretesa di imporre convinzioni religiose o morali e di interferire in ambiti intimi, privatissimi e riservati. Le questioni fondamentali della politica non sono, a me pare, la libertà, la giustizia sociale, l’uguaglianza. Si tratta di temi importanti ma, in qualche misura, derivati. La questione fondamentale è la scelta, cioè chi sceglie cosa, per chi e in base a quali criteri. Compiere una scelta implica il passaggio da ciò che è indistinto a qualcosa cui possiamo dare un nome. Dall’ignoto alla conoscenza, dalla sofferenza inenarrabile, fisica e psicologica come quella subita dai 18 ragazzi dell'eccidio del Dordia che potrebbero essere nostri figli e nipoti, alla possibile salvezza. Scelta significa progetto, promessa e tentativo di controllo sul futuro e sul caso. Come ha scritto Hannah Arendt: “Rimedio all’imprevedibile, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere delle promesse”, cioè di progettare coraggiosamente il futuro. Le politiche della paura, le culture dell’esclusione, etnica, culturale, sociale, e della sopraffazione mascherata sotto il velo di princìpi etici e religiosi o di fittizie identità nazionali contraddicono quella stessa idea di libertà cui a volte dicono di ispirarsi. Esse violano il

principio dell’autonomia delle persone, intese come soggetti capaci di scegliere, e naturalmente titolari del diritto di scegliere. Ci sono momenti in cui quello che accade sfugge al nostro controllo, in cui il caso -ciò che non era prevedibile, e che comunque non è

governabile- sembra dominare le nostre vite, individuali e collettive. Ma anche in quei momenti possiamo decidere, e scegliere, come comportarci rispetto all’ottusa brutalità del destino e alla prepotenza di chi vorrebbe decidere per noi. Scorrere l’elenco e la giovanissima età dei ragazzi uccisi a sangue freddo dai nazifascisti ai bordi del rio Dordia il 10 gennaio di 78 anni fa, lascia attoniti, senza parole, un tremendo pugno nello stomaco. Una disumanità che non trova confini. Tante di queste giovani vite spezzate erano poco più che bambini, senza nemmeno un accenno di barba ad adornare i loro visi. Aberrante.

Schopenhauer, il filosofo tedesco vissuto nel diciannovesimo secolo, sostiene che il pessimista altro non è che un ottimista ben informato e il mio timore è che in parte avesse ragione. Affinché certi abissi non abbiano più la possibilità di affacciarsi su queste terre occorre calibrare ogni parola, ogni gesto, ogni comportamento. Per far sì che ogni prevaricazione venga messa al bando, occorre che ogni frammento di memoria venga preservata, custodita e mai dimenticata. Il concetto di comunità deve essere interiorizzato perché è ciò che tiene insieme le uguaglianze e le differenze. È un concetto attraverso il quale si può praticare un’idea non retorica di progresso, di solidarietà, di convivenza, di rispetto delle differenze.

Di cura e di ricerca della felicità.

La loro scelta la fecero questi nostri giovani uomini della meglio gioventù e fu determinante per la libertà di cui tutti noi oggi possiamo godere. Tocca a noi compiere il resto; con ottimismo e ostinazione, con rigore e fermezza, con tolleranza e gentilezza, senza rabbia ma con vigorosa memoria.

Nicola Maestri Varano de Melegari

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commemorazione eccidio del dordia

Riccardo Dodi
Presidente Anpi Varano de Melegari


Buongiorno a tutti, oggi ricorre il 78^ anniversario dell’Eccidio del Dordia ed è con commosso orgoglio che possiamo vedere quanto desiderio abbiamo ancora di preservare la memoria di quello che è stato l’episodio numericamente più tragico della storia della Resistenza nella nostra Provincia. Un impegno che è germogliato da un antico dolore e trae la sua linfa quotidiana invece dal timore, perpetuo, di non riuscire a fare abbastanza per onorare con sufficiente rispetto ed impegno questo sacrificio. Gli anni che trascorrono, le generazioni che si susseguono e che si disperdono per strade che non sempre riportano qui rendono arduo il compito di chi – come noi – ritiene indispensabile mantenere viva l’attenzione e la sensibilità su questa vicenda e sul suo significato nel contesto del panorama resistenziale, in modo che non ne rimanga solamente qualche cippo e una pagina di storia [...]

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Ricordiamo i nostri 18 ragazzi, che tanti hanno definito eroi o patrioti, anche se personalmente mi piace più ricorrere ad altre terminologie che sono stati usate; perché in un mondo in cui il male rovescia il bene, ecco che assumono tutto un altro significato: renitenti, disertori, ribelli, briganti, banditi, sbandati. Sul foglio matricolare di mio zio Bruno si legge proprio “sbandatosi dopo gli eventi legati all’armistizio”. Questi ragazzi, davanti ai soprusi e alle ingiustizie che il regime fascista e le sue sciagurate alleanze avevano imposto, hanno scelto di mettere da parte l’individualità – negli aspetti della propria sicurezza, ma anche talvolta della sicurezza della propria famiglia e del proprio territorio – nel nome di qualcosa di più alto, facendo i conti quotidianamente con la paura e la sofferenza, ma traendo invece forza dal gruppo e dai compagni. Tale nobile sentimento si percepisce vivamente dalle testimonianze, dalla corrispondenza, da carteggi conservati; pensate ad esempio che già nel ‘43 Franco Furoncoli – partigiano Rho, uno dei nostri protagonisti, allora solamente 17enne – diede vita ad una società segreta che mirava alla liberazione dell’Italia (e cito) “ormai stanca delle leggi di questo miserabile avventuriero”. Alla sua organizzazione aderirono molti altri giovani che poco tempo dopo sarebbero diventati compagni di Resistenza, tra tutti anche Giulio Dalla Chiesa con cui poi salì a Case Cornali.

Quello stesso spirito ha attraversato gli anni e le province, le tragedie, le piccole e grandi vittorie, fino ad ispirare i padri costituenti che, a guerra finita, lo hanno inciso sulla Carta. Qualche anno dopo, nel 1955, davanti agli studenti universitari milanesi Pietro Calamandrei così spiegò il suo significato: “Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta. Quindi quando vi ho detto che questa è una Carta morta: no, non è una Carta morta. Questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.”

Vorrei dire cosa rimane, ma dirò: cosa ne è di quello spirito, puro e libero, che ha saputo e voluto scolpire dei principi tanto nobili, nel nostro presente? Abbiamo avuto professori esemplari che ci hanno insegnato la storia, anche se sarebbe più corretto dire che hanno insegnato alla storia cosa significa resistere e riscrivere – fisicamente – le sorti di un popolo, che il fascismo invece voleva ridurre ad un’animalesca massa ubbidiente e poco pensante, volta ad imporsi sulle altre culture. Se vogliamo essere i professori di oggi, e allevare quelli di domani, non dobbiamo essere studenti passivi di tali principi, ma membri attivi di una comunità che lotta per rispettarli, per difenderli, per arricchirli se lo riteniamo giusto, per tramandarli. E talvolta dobbiamo farlo badate bene trascendendo dal concetto di confine nazionale, in senso strettamente geografico, perché nel mondo di oggi – radicalmente diverso da quello anche solo di 20-30 anni fa – la globalizzazione, le leggi di mercato, la connettività ci legano a doppio filo con realtà spesso anche molto remote. Allora proviamo a fare una fotografia ad alcuni articoli della Costituzione e metterla di fianco ad un’altra fotografia, di quello che possiamo osservare nella realtà di oggi.

Art. 1. – L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Soprattutto negli ultimi anni, sembra che il popolo abbia quasi messo in secondo piano questo suo diritto; o per meglio dire, progressivamente è cresciuta la distanza tra mondo politico ed elettorato, complice sicuramente un malcontento dato da anni di promesse disattese, gestioni discutibili dei diversi settori della cosa pubblica, scandali, corruzione, ma anche un generale degradarsi della cultura politica e un disinteressamento al protagonismo elettorale. I numeri ci parlano: se dalle prime elezioni politiche del 1948 e fino alla fine degli anni ’70 l’affluenza degli aventi diritto di voto ha sempre mantenuto standard elevati, tra il 90 ed il 94%, nei successivi 30 anni è progressivamente calata di ben 10 punti. Le ultime 3 tornate, da questo punto di vista, sono state disastrose: dal 75% del 2013 fino al 64% dell’anno scorso, il che significa che quasi 20 milioni di cittadini hanno scelto di non esercitare il proprio diritto di voto. Una democrazia quindi che appare incompleta e privata della sua fisiologica partecipazione, esponendo il fianco a governi sempre meno rappresentativi.

Art. 4 – La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Il mondo del lavoro in Italia è messo in discussione da una moltitudine di minacce che da un lato ne limitano il diritto, dall’altro ne sviliscono e compromettono il dovere. Basti citare gli oltre 3 milioni di lavoratori irregolari, che però sono capaci di generare quasi 80 miliardi di euro di valore aggiunto. Oppure le ignobili statistiche del precariato, che coinvolge 7 nuovi contratti su 10; dell’occupazione, sotto al 60%; della crisi dei salari, gli unici dell’area OCSE ad essere calati nell’ultimo trentennio. Ma i numeri che sicuramente ci fanno più male sono quelli che ci urlano delle morti bianche: 3 lavoratori al giorno, solo l’anno scorso, schiacciati dai mezzi agricoli, stritolati nei filatoi, precipitati dai ponteggi – inclusi gli studenti in alternanza. E purtroppo la disgrazia o la disattenzione del lavoratore, sempre più spesso, non incidono tanto quanto l’imperizia, la noncuranza o anche la volontaria omissione delle misure necessarie da parte dei datori e delle autorità preposte al controllo. Uno sfruttamento che nel nuovo millennio ha ampliato il suo spettro semantico e che ci vede tutti, chi più chi meno, schiavi di dinamiche concorrenziali di profitto che non guardano in faccia al progresso, né tantomeno al benessere, materiale o spirituale della società.

Vorrei citare ancora un ultimo articolo: Art. 11 – L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Ebbene nel 2022 il nostro Paese, in gran parte tramite un’azienda controllata dal Ministero dell’Economia, si è confermato al sesto posto nel panorama degli esportatori di armamenti, per 5 miliardi su mercati che vedono, tra gli altri: Qatar, Emirati, Arabia Saudita; Turchia, il cui leader – noto pacifista – siede costantemente ai tavoli delle trattative internazionali; Egitto, che ancora ci deve più di una spiegazione su qualche vicenda controversa; Stati Uniti, noti “esportatori di democrazia”. La spesa prevista dalla Legge di Bilancio 2023 aumenta e ammonta a oltre 26 miliardi. Estendendo quest’analisi nel contesto internazionale, che vede il mercato globale di armi in costante crescita nell’ultimo decennio, non è del tutto spropositato sul piano politico fare un parallelismo storico con la corsa agli armamenti avvenuta in Europa prima della Prima Guerra Mondiale. La sensibilità su questi temi dev’essere mantenuta vigile, perché va sempre ricordato che in ogni conflitto, in ogni epoca, gli eserciti coinvolgono per la maggior parte gli strati medio/bassi della popolazione: questa non è demagogia, ma matematica. Civili, per lo più giovani, reclutati per legge, soggiogati dalla propaganda del momento, costretti per necessità. E a pagare il prezzo più alto è, sempre, la popolazione civile.

Si potrebbe andare ancora avanti, ma queste poche considerazioni sono più che sufficienti per farci riflettere sul valore che vogliamo dare oggi alla Resistenza, e quindi le priorità che deve darsi la nostra comunità.

Resistenza significa responsabilizzare il cittadino e riportarlo al centro del processo democratico; fargli ritrovare la cultura politica e percepire il potere dei suoi diritti di soggetto votante, nell’interesse della più ampia collettività che si possa riflettere anche nella sfera personale, familiare e individuale. Un impegno che dev’essere preso in primis dalle istituzioni, ma anche dal panorama associazionistico e della libera informazione. È diritto di tutti avere un’opinione, ma è un dovere di tutti averla informata. Non c’è libertà, non c’è diritto nell’ignoranza, così come non ci può essere rispetto nell’indifferenza. Altrimenti, la democrazia che col sangue è stata sognata e conquistata perde di consistenza, mentre la rappresentanza fa il gioco di chi è più abile a riscaldare le piazze.

Resistenza significa anche sviluppare adeguatamente il mondo del lavoro, tramite politiche che non inseguano necessariamente gli interessi di mercato, ma piuttosto che valorizzino il lavoratore come primo contribuente del progresso morale e spirituale della società, così come detta la Carta. Significa anche porre in primo piano la cultura della prevenzione, della lotta allo sfruttamento in ogni sua forma, della dignità del lavoro anche oltre ai confini nazionali. Non ci dovrà mai essere indifferenza – e quindi complicità – laddove la raccolta, produzione, lavorazione, stoccaggio e trasporto di beni compromettano le condizioni fisiche e sociali dei lavoratori coinvolti, nonché la salvaguardia di ecosistemi di qualsiasi scala.

Resistenza significa infine opporsi strenuamente a qualsiasi forma di oppressione dell’uomo sull’uomo, che sia dettata da qualsivoglia sentimento di affermazione o rivalsa patriottica, ambizione territoriale, controllo commerciale, isolamento o soppressione di ideologie. Significa far sentire la propria voce ogni qualvolta, ad ogni latitudine, si avverta una minaccia alla sicurezza o alla libertà di un popolo, guidati dalla cultura del non ricorso alla violenza. Significa abbattere quel muro di indifferenza che si crea quando i gradi di separazione aumentano. Spesso ci si è domandato: ma com’è stato possibile per i nazisti, per i fascisti, che pur sotto la divisa erano uomini, compiere tali atrocità? È successo per una contingenza di fattori, sia indottrinamenti esterni, sia auto condizionamenti coscienti, che hanno creato uno spesso diaframma mentale tra loro e le vittime. È successo allora, è successo ancora in epoche più recenti, può succedere ancora, a chiunque: a chiunque scelga di subire passivamente la distanza culturale, ideologica, perfino geografica con chi ha davanti. Resistenza significa quindi lottare perché il problema di uno è un problema che riguarda tutti, e la libertà di un uomo solo è la libertà dell’umanità intera.

E allora è con rinnovata forza che oggi ripercorriamo ancora una volta quel sentiero, riviviamo quelle paure, condanniamo nuovamente l’epilogo, senza dare quartiere a giustificazioni o reinterpretazioni di sorta. Abbiamo scelto di suddividere la narrazione in sei capitoli principali: il viaggio, l’attesa, la paura, la cattura, la strage, la verità. Come ogni anno, abbiamo collaborato con le classi terze dell’Istituto Comprensivo Valceno di Varano, quindi con piacere ascolteremo anche i frutti del nostro confronto.

Buon ascolto, grazie a tutti e viva la Resistenza.

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