Carmen Motta
Presidente Istituto Storico della Resistenza
e dell' Età Contemporanea
Parma
Grazie Presidente, saluto le autorità civili, militari, le associazioni partigiane e combattentistiche i familiari; un grazie particolare a Nicola Maestri, presidente Anpi Provinciale, che mi ha proposto di intervenire nell’80’ della commemorazione dei martiri di piazza Garibaldi quale Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma. E’ per me un onore e porto il saluto di tutto l’istituto.
L’eccidio che oggi commemoriamo, quando fu commesso, scosse profondamente tutta la popolazione di Parma per l’efferatezza e la ferocia che si abbatté sui corpi dei 7 “martiri”, martiri appunto anche per questo, con una selvaggia e inaccettabile violenza; quegli avvenimenti vivissimi nella coscienza civile della città, ferita e traumatizzata per come il regime fascista avesse raggiunto un apice inimmaginabile nell’infliggere torture, morte, privazione delle libertà personali. [...]
[...]
E’ questa “coscienza” civile che non dimentica la spinta profonda per cui ogni anno istituzioni democratiche, familiari e cittadini vogliono riaffermare il loro ricordo pubblico.
Ma la memoria non è, e non può essere, solo doveroso ricordo; è soprattutto impegno nel sollecitare conoscenza, ricostruzione storica e adesione a quei valori conquistati, mai scontati, a fondamento della convivenza di una comunità che vi si riconosce e li sente propri.
La marcia del tempo, inesorabile, ottunde, cancella, affievolisce, mitiga sentimenti, emozioni, fatti, quasi non fossero mai esistiti, allontana consapevolezze e certezze.
I nostri giovani, ma non solo loro, conoscono il tempo breve drammatico vissuto dai 7 martiri? E’ storia che a loro appartiene?
Dubito, anzi temo di no.
Voi oggi presenti qui, al contrario, e io stessa, quei fatti li ho sentiti raccontare in famiglia, li ho “vissuti” attraverso la testimonianza e il dolore del racconto di chi invece li subì; abbiamo avuto questa straordinaria opportunità e tanti di noi, nati non molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, sono stati spinti a conoscere, studiando, leggendo la “storia” del nostro paese, del nostro territorio, nel ventennio della dittatura, a capire cosa fu la Resistenza, la Liberazione, la nascita della nuova repubblica e della democrazia.
Ricordiamo, allora, insieme ciò che avvenne.
Per questa mia sintetica ricostruzione indispensabile e prezioso il volume del 2003 “L’ultima notte di agosto. Il martirio di Giuseppe Barbieri.” di Marco Minardi.
Era l’ultima notte di agosto del 1944. Nel primo pomeriggio del 31 alcuni partigiani ( Giovanni Boni “il Monello” e altri non identificati successivamente) avevano ucciso, vicino al macello pubblico di allora, due fascisti della Brigata Nera di Parma, Luigi Gonzaga di San Secondo e Brenno Monardi detto “Bragòn” di Parma, particolarmente inviso alla popolazione dei borghi popolari ( per inciso Monardi si era schierato contro Balbo nelle Barricate del 1922 un significativo cambiamento!), e, forse, ma non ci sono riscontri storici certi, anche un militare tedesco.
L’uccisione dei due fascisti della B.N. avvenne in un momento in cui era in corso una forte rappresaglia contro gli ambienti antifascisti in città, in particolare nei quartieri popolari dei Capannoni del Cristo e in Oltretorrente.
Vincenzo Ferrari, Eleuterio Massari, Gedeone Ferrarini, Ottavio Pattacini, Afro Fanfoni, Bruno Vescovi, Giuseppe Barbieri , ormai privi di forze per le violenze subite, furono trascinati, all’alba del primo settembre, alla fucilazione in piazza Garibaldi.
I corpi scaricati, come stracci, e abbandonati davanti ai cancelli della Villetta, il cimitero cittadino, con divieto delle autorità di rimuovere le salme.
Il monito; nessuna pietà per i “sovversivi”; guardate, di questo siamo capaci. Se cadete nelle nostre mani vi massacriamo.
Incaricati dell’esecuzione miliziani della B.N. di Parma, con qualche elemento giunto appositamente dalla provincia; prima un vanto da rivendicare e poi, negli anni dei processi, un gesto da rinnegare, scaricando sui superiori la responsabilità. La vigliaccheria dei violenti.
Per i vertici fascisti della città il Federale Romualdi, Patterozzi capo ufficio politico, Maestri il comandante, risultò intollerabile che gli antifascisti resistenti osassero colpire nel centro abitato della città. Ne andava del loro prestigio.
Partì la rappresaglia nei quartieri popolari e si scelsero le vittime, per la vendetta, nei luoghi di tortura della B.N. di via Walter Branchi, vicino a strada delle Orsoline.
Ricordiamo chi erano i 7 martiri: Eleuterio Massari, 41 anni, merciaio ambulante dell’Oltretorrente, arrestato dieci giorni prima del supplizio da parte della B.N. di Parma guidata da “Bragòn”.
Comunista, fratello del ricercato gappista di Parma, Attilio Massari, detto “Bulen”, imprendibile.
La moglie Lidia, ricevuta dal Maestri della B.N., inutilmente lo implorò: Eleuterio non si era mai occupato attivamente di politica, era ammalato.
Nessuna pietà.
Ottavio Pattacini, 38 anni, comunista, ferroviere, finito in una retata della B.N. di quei giorni. Sua moglie Anna era incinta dell’ottavo figlio. Anche lei supplicò clemenza. Nessuna pietà.
Bruno Vescovi, 18 anni, partigiano della 31’ Brigata Garibaldi Copelli, tipografo, catturato a casa in b.go Sorgo in Oltretorrente perché ferito durante un rastrellamento in montagna. Una soffiata lo fece arrestare.
Nessuna pietà.
Afro Fanfoni da tempo in carcere, 40 anni, contadino della bassa parmense, anarchico, arrestato dalla B.N. su indicazione dei fascisti locali.
Nessuna pietà.
Giuseppe Barbieri, avvocato, arrestato privo di documenti, ma la sua identità e il suo ruolo nella Resistenza erano noti alla B.N.; “Basileus” il suo nome di battaglia, era un eccellente cospiratore, dedito, con grande capacità e intelligenza, allo sviluppo della lotta armata per la sconfitta del nemico.
Tutti i dirigenti della Resistenza erano consapevoli di quanto importanti fossero per il nemico. Atrocemente torturato per settimane nulla rivelò sulla organizzazione del movimento clandestino e i nomi di chi collaborava con lui. Fu un eroico silenzio che salvò i suoi compagni e per questo nessuna pietà.
A loro si aggiunsero Gedeone Ferrarini e Vincenzo Ferrari, prelevati dalle carceri tedesche in Cittadella.
Gedeone Ferrarini, 39 anni, abitava a Valera, commerciante di burro e latte dirigeva l’azienda familiare, sospettato di attività antifascista, quale lui era, scelse di restare in pianura per continuare la sua attività aziendale proseguendo ad appoggiare la Resistenza.
Nessuna pietà.
Vincenzo Ferrari, 41 anni, di B.go del Naviglio, cameriere, Ardito del Popolo con Picelli nel 1922, caduto in una retata della B.N. in via Po il 22.7.1944. Nessuna pietà.
Altri due antifascisti Giustino Cortesi e Giuseppe Guatelli sfuggirono alla morte; Cortesi morì nel 1947 in conseguenza delle torture subite; Guatelli fu ritenuto più utile per uno scambio di prigionieri.
“Giustizia necessaria” la definì il giornale diretto da Pino Romualdi.
Di questa “giustizia necessaria” perirono i 7 martiri antifascisti; persone come noi, con un lavoro, una famiglia, degli ideali; divennero eroi loro malgrado; persone di diversa estrazione sociale, culturale, accomunati nella terribile fine delle loro vite dal coraggio della “scelta”.Sì. Si erano assunti la responsabilità della scelta, consapevoli del rischio, che non riguardava solo loro ma le loro famiglie, le amicizie; la loro esistenza per la Liberazione del popolo italiano. Per ricominciare con un’altra storia per tutti.
Cosa può essere più esemplare, più autentico, più indenne dallo scorrere del tempo di queste vite che 80 anni fa furono annientate affinchè la fine di una dittatura, la vittoria della Resistenza ridessero dignità, pace, giustizia, libertà al loro al nostro paese?
Sono certa che noi tutti dobbiamo a loro eterna riconoscenza e ammirazione, ma, più ancora, fino a che il tempo della nostra vita ce lo concederà, impegno a non commemorare solo la loro morte ma la loro viva presenza, oggi, per chi poco o nulla la conosce; solo così continueranno a vivere nel presente e nel futuro e non avranno donato il bene più prezioso, la vita, inutilmente.
E i carnefici?
I responsabili della dittatura fascista a Parma?
Fu fatta giustizia?
Vennero portati a giudizio con il primo processo della fine di settembre 1945 a cui parteciparono tantissime persone di Parma e provincia, con i famigliari delle vittime dell’eccidio. E tale era la rabbia nei loro confronti che successero tumulti davanti e in tribunale.
La requisitoria del pubblico ministero Primo Savani, futuro sindaco della città, dimostrò che furono sacrificati sette cittadini estranei al fatto per cui furono incarcerati, torturati, fucilati.
La Corte Straordinaria d’Assise condannò dodici dei tredici imputati; otto a morte mediante fucilazione, quattro a lunghe pene detentive.
Ci vollero molti anni e altri processi prima di vedere concluso l’iter giudiziario.
Da Parma, a Piacenza, a Firenze, ad Ancona. Un ulteriore calvario per i famigliari, con un pesante aggravio anche delle spese per assistere ai processi.
A Firenze, 1948, dove il processo riprese per la terza volta, la requisitoria del procuratore chiese la condanna all’ergastolo per tutti gli imputati; nel frattempo il parlamento aveva abolito la pena di morte ed era intervenuta l’amnistia per molti reati del ventennio fascista.
Maestri, Cavatorta, Patterozzi, Lisoni (i due ultimi latitanti) condannati all’ergastolo, Melani a 24 anni, Rosi e Martello a 21 anni.
Il processo, in sostanza, aveva confermato la responsabilità degli uomini della B.N. come evidenziato dal primo processo a Parma.
Poi su ricorso degli avvocati difensori nel 1950 il nuovo esame ad Ancona.
Nel 1951 nel nuovo processo, trasferito da Roma a Macerata, Romualdi, accusato di aver ordinato l’uccisione dei sette detenuti per rappresaglia la notte del 31.8.1944. adottò la linea difensiva di scaricare tutta la responsabilità sui tedeschi, giustificando le esecuzioni nelle piazze e nelle carceri come atti di obbedienza verso ordini superiori provenienti dai comandi militari tedeschi.
Sostanzialmente la subordinazione delle milizie fasciste della Repubblica di Salò nei confronti dell’esercito occupante tedesco.
Nessuna dignità, nessun onore, miseria umana e politica di un gerarca fascista.
Romualdi volle dare di sé e della fine ingloriosa della Repubblica di Salò un’immagine rovesciata rispetto ai documenti ufficiali della Prefettura degli anni 1943-1945, dei suoi articoli sulla Gazzetta di Parma e degli stessi atti processuali fino a quel momento svolti.
Romualdi, e altri esponenti del neonato MSI, si attribuiva una personalità adatta agli anni ’50, moderata, equilibrata. Prima un fascista intransigente, fautore della linea dura contro l’antifascismo, ora accorto politico.
Romualdi sostenne che non era responsabile dell’eccidio dei 7 patrioti antifascisti in piazza Garibaldi, né delle atroci torture a cui erano stati sottoposti; la sentenza assolutoria “per non aver commesso il fatto” giunse il 23 maggio 1951.
L’ex federale fascista, incarcerato nel 1948, fu liberato alla vigilia del processo di Macerata; Patterozzi era ancora latitante.
La “giustizia” per loro fu questa.
Ecco uno, tra i molti, capovolgimenti della storia reale; quella giudiziaria, è noto, spesso non coincide con la prima ma ciò non toglie che i fatti abbiano dimostrato il contrario.
Tutti colpevoli, nessun colpevole per un regime che assassinò migliaia di cittadini italiani e inviò nei lager nazisti una moltitudine di connazionali di religione ebraica, antifascisti, omosessuali, militari che non aderirono alla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre 1943.
Fu la Resistenza che riscattò l’onore della patria.
Fu la Costituzione repubblicana che definì i caratteri di uno stato democratico per un paese rinato dalle macerie di un regime totalitario negatore e persecutore dei diritti fondamentali di ogni persona.
Nonostante tutto questo i conti con il ventennio fascista l’Italia, mio personale giudizio ma non solo mio, non li ha mai fatti fino in fondo.
Analizzare le cause richiederebbe più tempo di quanto mi consenta il mio intervento. Ma questo è uno dei nodi che ancora non sono stati sciolti definitivamente.
E la storia ci insegna, invece, che prima o poi i nodi non sciolti riemergono e il tentativo di riscrivere la storia ad uso e consumo di chi, pro tempore, gestisce il potere non è mai scongiurato.
Non sono solo i fascisti del terzo millennio, come loro stessi si definiscono, che vorrebbero imporre un revisionismo storico del ventennio; è un tentativo che riguarda anche una storia più vicina a noi, quella degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso; lo stragismo neofascista che fondava le radici proprio là dove la Resistenza credeva di averle estirpate per sempre; colluso con organi “deviati”dello stato, coperto da tanti, troppi esponenti ai massimi livelli istituzionali; lo stato repubblicano, democratico, antifascista, non lo hanno difeso ma al contrario hanno tentato di logorarlo, di minarlo, per riportare indietro le lancette della storia.
Sta tutto qui il cuore della domanda: se non si è antifascisti cosa si è?
Domanda fastidiosa, pare, oggi, ma ineludibile.
Riordinando vecchi fascicoli dell’Istituto ho ritrovato articoli del quotidiano locale, la Gazzetta di Parma, che mi hanno colpita: una lettera al direttore del giornale del 3.9.1989 nella quale, in riferimento all’eccidio di piazza Garibaldi, si ribadiva che la rappresaglia, cito, “sarebbe stata voluta dal comando tedesco in seguito all’uccisione di un graduato germanico( fatto mai accertato) caduto insieme ai militi Brenno Monardi (Bragòn) e Luigi Gonzaga”, dunque alle “presunte” responsabilità della B.N. , con riferimento alla sentenza definitiva della Corte d’Assise di Macerata di assoluzione con formula piena di Romualdi ( deceduto nel 1988)e Pattarozzi.
Nessuna ammissione della responsabilità morale , prima ancora che politica e militare dei dirigenti fascisti di Parma. Nemmeno di chi torturò e fucilò i 7 martiri.
Come se le vite di ciascuno di quei resistenti, di quelle persone in carne e ossa, rientrassero negli “inconvenienti” della storia, di cui la responsabilità era, appunto, dell’occupante tedesco; come se il regime fascista di quell’occupante non fosse alleato e non ne condividesse a pieno le finalità.
Irritato l’estensore della lettera, forse, dal fatto che, il 2.9.1989 alla solenne celebrazione dei 7 martiri di piazza Garibaldi, Leonardo Tarantini (“Nardo”) presidente provinciale Anpi, unico intervento, gli dedicò , dopo la lettura dei singoli nomi dell’eccidio, queste parole:”Ai martiri gloriosi che con il loro sangue aprirono il cammino della libertà”.
Poche parole che riassumono il senso di quella tragedia e il suo valore inestimabile. Nessuna retorica da parte di chi visse direttamente e partecipò a quella vicenda storica che ancora ci interroga e ci chiede che il sacrificio di sette persone e dei loro ideali siano ancora per tutti la nostra bussola oggi, come ieri, come domani.
Con gli occhi aperti sul mondo, sul nostro presente, contro l’indifferenza dei ciechi e sordi, di chi non vuol sapere, di chi ignora volutamente, di chi mente sapendo di mentire.
La vita è una e i martiri di piazza Garibaldi l’hanno persa per noi; non volevano morire, volevano vivere e lottare per un paese libero, più giusto, in pace.
Chi ha fatto scempio dei loro corpi e delle loro vite ha creduto di annientarli e con loro i valori in cui credevano; ma così, al contrario, nemesi della storia, ha dato loro vita per sempre.
Custodiamola.