Archivio della categoria: costituzione

Comitato Provinciale 16.12.2023

Analisi politica di Nicola Maestri Presidente Comitato Provinciale ANPI Parma

Buongiorno a tutte e tutti voi e benvenuti a questo Comitato Provinciale che ha l'ambizione di focalizzare i suoi sforzi sulla situazione politica preoccupante che va profilandosi. Il contesto internazionale vede un’angosciante recrudescenza del conflitto israelo palestinese. ANPI ha fermamente condannato i vili attacchi compiuti da Hamas sulla popolazione civile israeliana, perché di questo si è trattato. Ma come non evidenziare la reazione scomposta, abnorme e disumana che l'esercito israeliano sta compiendo quotidianamente sulla striscia di Gaza e sul popolo palestinese, che da anni subisce una ghettizzazione e una restrizione sempre più stringente delle più elementari basi di sopravvivenza. I morti sulla popolazione civile hanno superato le quindicimila unità. È notizia ormai di dominio pubblico che in questo micidiale territorio i bambini e non solo loro, stiano morendo di fame. Tutto ciò è sconvolgente. Avrete notato che di fatto, questo nuovo inasprirsi del conflitto mediorientale ha derubricato totalmente la guerra in Ucraina. [...]

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Ritengo che su questi metodi così creativi e disinvolti da parte di chi gestisce l'informazione dovremmo fare una seria riflessione. Nei giorni scorsi ho avuto l'opportunità di essere presente al teatro al Parco al monologo di Roberto Saviano.  La serata verteva sull'utilizzo dei podcast, l'uso delle parole e l'informazione “drogata” cui siamo costretti a subire. Il nocciolo della questione è proprio questo; viviamo in un'epoca in cui la propaganda arriva prima della notizia, ragion per cui tale notizia, anziché arrivare asciutta e scevra da pre confezionamenti viene data in pasto al consumatore finale deformata e indirizzata già in un determinato modo. Questo è un enorme problema, perché una buona fetta di popolazione anziché differenziare, selezionare e approfondire, si accontenta dell'informazione main stream e ciò che passa il convento è questo. Per cui la guerra in Ucraina, che procede imperterrita con il suo carico di morte e distruzione, viene relegata come quinta, sesta notizia, o addirittura cancellata dai palinsesti televisivi e dalla carta stampata, mentre si è discusso per settimane del ciuffo di Gianbruno, piuttosto che condannare il comportamento di questo signore. Purtroppo è con queste gravi lacune informative che dobbiamo misurarci, ma al tempo stesso occorre sfruttare ogni pertugio democratico per rilanciare il nostro operato e fare in modo di far giungere alla più vasta platea quello che è il pensiero della nostra Associazione. Senza nessun dubbio viviamo un periodo difficile della vita democratica. Non era mai successo in tempi recenti che si mettesse in discussione il diritto di scioperare. Ma oggi assistiamo anche a questo grave affronto che crea un precedente molto pericoloso. L'articolo 40 della Costituzione dice che il diritto di sciopero è un diritto individuale, che può essere esercitato soltanto in forma collettiva. L'articolo 40 riconosce dunque il diritto allo sciopero. 

È piuttosto evidente che c'è una parte cospicua di questa compagine governativa che non perde occasione per cercare di sgretolare i diritti conquistati negli anni e ciò deve preoccuparci. Un esempio tangibile è la “riforma” costituzionale approvata dal Governo Meloni. Temo sia stata progettata per assestare la spallata finale al progetto politico della Costituzione. È la rancorosa vendetta di un manipolo di reduci ideologici del fascismo contro lo spirito del 1948: il tentativo di liquidare l’impianto partecipativo che, enunciato nell’articolo 3, permea tutta la Carta. Fuori i cittadini dai piedi del potere: in un clamoroso ritorno al rapporto diretto tra il capo e la folla che, ogni cinque anni, lo elegge. È la riduzione dell’aula parlamentare, vista ancora come sorda e grigia, a un bivacco di manipoli: i manipoli di chi, magari con il 20% dei voti o nemmeno, se ne prenderà il 55%, rendendola semplicemente inutile. Una claque del capo.

Non intendo arrivare a conclusioni affrettate ma trovo questa riforma inutile, con le dovute cautele un po' come i consigli comunali e quelli regionali svuotati dalle leggi presidenzialiste che hanno aperto la breccia culturale da cui sono passate tutte le tentate riforme che volevano, e ora di nuovo vogliono, il “sindaco d’Italia”. È in questi perversi meccanismi locali, oltre che nella parentesi nazionale (presto chiusa) dello Stato di Israele, che si trovano i veri antecedenti di questa mostruosa idea del premierato elettivo. Perché è questo che va detto: non è presidenzialismo, è un mostruoso “capismo”. Tornano folgorantemente attuali le parole di Lorenza Carlassare, la giurista scomparsa lo scorso anno: «il presidenzialismo all’americana in Italia non lo vogliono, perché i poteri del presidente sono davvero limitati dal Parlamento e dal potere giurisdizionale, e allora vedono l’idea del semi-presidenzialismo, come un filone che può portare la concentrazione dei poteri in una persona sola. Questa è l’aspirazione». Un’aspirazione aggiungo, che qua, nel progetto dell’unico governo occidentale guidato da un partito di matrice fascista, si fa scoperta e anzi sfacciata nella formula del premier eletto: sarebbe un unicum mondiale. 

Nei suoi “appunti di Giorgia” (un abominio che ancora una volta solo la sfasciata informazione italiana poteva tollerare) la (anzi, il, virilissimo) presidente del Consiglio si aggira nella stanza di Palazzo Chigi che contiene i ritratti dei predecessori. Col ditino alzato stigmatizza la scarsa durata di ognuno dei presidenti «del Consiglio»: già, perché c’è un enorme non detto. In quella stessa sala, ma la telecamera si guarda bene dall’inquadrarlo, c’è anche (vergognosamente) il ritratto di Benito Mussolini: lui, sì, che è durato vent’anni!

Quel ritratto andrebbe rimosso (e al suo posto affisso un duro monito) non solo per i crimini atroci e devastanti di Mussolini e del suo totalitarismo omicida, ma anche perché quel governo fu illegittimo perché incostituzionale: «sotto questa finzione della monarchia di cui il fascismo ha mantenuto fino al crollo l’etichetta, da molto tempo non c’era rimasto niente di vivo: il re costituzionale non solo aveva cessato di essere costituzionale da quando aveva tradito il patto statutario, ma da quando aveva deferito al capo del governo tutti i poteri regi, aveva cessato di essere re. Di solito il colpo di Stato serve ad un sovrano costituzionale per rinnegare la costituzione … ma il monarca sabaudo ha fatto un colpo di Stato per conto altrui»,per dirla con le parole di Piero Calamandrei.

Ed è qui che il precedente, purtroppo, calza perfettamente per descrivere la riforma della nipotina (via Almirante) di un così orrendo nonno: anche il governo che dovesse formarsi dopo l’approvazione della “riforma” Meloni sarebbe incostituzionale: perché incostituzionale, cioè eversivo della lettera e dello spirito della Carta sarebbe la riforma, ancorché formalmente ineccepibile nei conteggi dei voti. Mai come e quanto oggi un governo della Repubblica ordisce, di fatto e nella legalità delle procedure, un attentato alla Costituzione: anzi, un colpo mortale.

È dunque il momento di una resistenza che usi ogni mezzo: ogni mezzo purché pacifico, incruento, costituzionale, legale. Ai cittadini, che nella mistificazione di Meloni dovrebbero avere più potere, dovremo chiedere: pensate di averlo avuto nei vostri comuni, nelle vostre regioni? La sanità della vostra regione, il cui capo eleggete direttamente, obbedisce ai vostri bisogni? Ebbene no, care cittadine e cari cittadini, questa è l’ultima rapina della nostra voce, l’ultimo borseggio della nostra sovranità. Se dovesse passare, voteremmo (ma in quanti?) una volta ogni cinque anni, e nel mezzo verrebbe buttata via la chiave della democrazia: saremmo prigionieri impotenti, molto peggio di oggi, nella galera dell’irrilevanza assoluta.

La parola, dunque, al popolo sovrano: in un referendum in vista del quale il fronte del No deve costruirsi fin da ora nel modo più ampio, fattivo e capace di prendere parola su ogni telefono, in ogni piazza, in ogni televisione. Come ha cantato Vinicio Capossela qualche settimana fa in un teatro Regio gremito, in uno splendido brano che invoca le staffette partigiane («Voi che passate il testimone /Perché arrivi più avanti, perché arrivi fino a noi / Che ancora abbiamo da resistere / Al mostro e alle sue fauci sepolte ai nostri piedi). Ecco, questa è la libertà: azione e responsabilità. Attrezziamoci. 

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Sanità Pubblica

Il 6° Rapporto sul SSN analizza le grandi criticità di sistema, finanziamento pubblico, spesa sanitaria, livelli essenziali di assistenza, governance Stato-Regioni e attuazione del PNRR, al fine di sensibilizzare da un lato la politica a rimettere la sanità pubblica al centro dell’agenda, dall’altro tutti gli stakeholder della sanità a diventare attori protagonisti per consolidare il valore sociale del SSN, rinunciando ai privilegi acquisiti per rilanciare il bene comune.

Rapporto rileva l’inderogabile necessità di scelte politiche coraggiose per risolvere la grave crisi di sostenibilità della sanità pubblica che, lentamente ma inesorabilmente, sta erodendo il diritto costituzionale alla tutela della salute che si sta trasformando in un privilegio per pochi.


Scelte politiche che impongono una chiara visione sul modello di sanità da lasciare in eredità alle future generazioni, che condizionerà sia l’entità delle risorse pubbliche da investire per la salute e il benessere delle persone, sia le riforme di rottura da attuare per condurre il SSN nella direzione voluta. 

6° Rapporto Fondazione GIMBE

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La Via Maestra Clone – La Pace Prima di tutto

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Assemblea comitati di sezione

9 settembre

Relazione Introduttiva del presidente Comitato Provinciale Nicola Maestri

Benvenuti a tutte e tutti voi ! Grazie per essere così numerosi a questa chiamata che, come segreteria provinciale, abbiamo voluto fortemente per fare il punto sul nostro cammino. Il momento storico non è dei più rosei, la situazione politica ha subito un'involuzione piuttosto accentuata negli ultimi mesi dove, inesorabilmente, si stanno riducendo gli spazi che riguardano i diritti e la libertà di opinione. La destra estrema al governo del Paese, anziché combattere nuove e vecchie insopportabili intolleranze, le cavalca penosamente rivolgendosi spesso benevolmente verso chi impersona gli istinti più cupi e retrivi.[...]

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La nostra Associazione deve appoggiare e promuovere nuove forme di resistenza attiva, per rinnovare, a distanza di ottant'anni, i principi e i valori che animarono giovani donne e uomini quando si ribellarono al regime fascista, il quale dopo anni di soprusi e prevaricazioni, aveva infine portato l'Italia a un accumulo di macerie e lutti. Come avrete letto nella mail di convocazione, la nostra intenzione riguardo questo incontro, è quella di coinvolgere principalmente i comitati di sezione, ma anche semplici iscritti che hanno a cuore l'Anpi e i diversi territori in cui operiamo fattivamente. Infatti, abbiamo cercato di focalizzare l'incontro sugli ottant'anni dall'inizio della resistenza, ma soprattutto come combattere i neofascismi nelle sue diverse forme e dare nuovo impulso alla nostra Associazione su tutto il territorio provinciale. Crediamo sia prezioso questo confronto tra le diverse realtà, il fare rete tra le sezioni che hanno già di fatto iniziato a collaborare tra loro, lo riteniamo un esercizio utile, ma occorre sicuramente fare di più. Ci siamo dati il criterio temporale del triennio 2023/25 per riuscire a mettere a terra progetti fattibili per la nostra Associazione. Mi piacerebbe partire con un cenno storico, uno di quelli che di fatto hanno dato vita alla grande Storia.

A Cuneo, dal balcone della sua casa, l’avvocato Duccio Galimberti disse “...la guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana, ma non si accorda a una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare sé stessa a spese degli italiani”. La guerra sarebbe sì proseguita, come aveva comunicato alla radio il maresciallo Badoglio, ma fino alla cacciata dell’ultimo invasore, dell’ultimo impostore. Quel giorno, sei settimane prima dell’8 settembre del 1943, con queste parole Duccio Galimberti poneva le basi della Resistenza.

Infatti, nell’afosa notte estiva del 25 luglio di una Roma semivuota, si tenne a Palazzo Venezia una riunione del Gran Consiglio del Fascismo in cui il massimo organo del partito “sfiduciò” Mussolini. Con il collasso politico-istituzionale si era arrivati all’atto finale della decomposizione del regime criminale di un “duce” che dal 1935 aveva trascinato gli italiani in un ciclo pressoché ininterrotto di guerre.

E con un balzo di ottant’anni veniamo ai giorni nostri, un periodo politicamente cupo, in cui c’è qualcuno che sistematicamente pigia con violenza sul pedale di un revisionismo studiato e strutturato. Un esempio per tutti: il portavoce della regione Lazio, tal Marcello De Angelis, ex terrorista nero dei NAR, nega la matrice neofascista della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna e arriva a mettere in discussione le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Mattarella. Considerazioni incompatibili con il ruolo che ricopre, in una istituzione così importante. E questo avviene nel silenzio più o meno imbarazzato dei vertici dell’attuale governo, partendo dalla presidenza del Consiglio ad altre cariche istituzionali. Con molte probabilità la presidente del Consiglio non può e non vuole prendere le distanze dal neofascismo perché il partito da lei rappresentato ha nel proprio DNA questa matrice. E le dimissioni di De Angelis sono arrivate davvero oltre il tempo massimo, tardive oltre ogni ragionevolezza, dimostrando un'assenza totale di senso delle istituzioni. Ma se chi ricopre, pro tempore, incarichi di primissimo piano, scavalca in maniera così disinvolta una sentenza passata in giudicato che ha visto condannare in via definitiva neofascisti acclarati, significa che la nostra democrazia necessita di essere attenzionata e protetta in ogni sua forma.

Ricordo che i magistrati che hanno indagato sulla strage del 2 agosto 1980 hanno scoperto una fitta trama di intrighi, tradimenti delle istituzioni, connivenze tra forze oscure e vecchi gerarchi della repubblica sociale di Mussolini, estremisti di destra, servizi segreti, malavita organizzata. Percorsi sotterranei che oggi riflettono nuova luce sulle trame dello stragismo e sulle strategie politiche applicate all’Italia per limitarne la libertà e cancellare qualsiasi possibilità di opposizione e di proposte alternative da parte della sinistra.

È importante focalizzare che i giudici di Bologna hanno svelato le trame di una nuova storia, una storia nascosta. Una storia di tradimenti e di violenze ai danni della democrazia italiana. L’hanno scritta valutando il contesto in cui agirono autori e mandanti della strage del 2 agosto 1980, e analizzando cinquant’anni di tentativi di condizionamento delle libertà costituzionali. Tutto questo messo in atto da una “struttura occulta” cui concorsero nel dopoguerra una parte significativa degli apparati militari e di sicurezza dello Stato, protetti da esponenti delle forze di governo e appoggiati dagli oltranzisti statunitensi. Chi ne faceva parte affermava di voler di preservare l’Italia dal comunismo, secondo i principi della Guerra fredda.

Ma a questo scopo non si esitò a mobilitare e foraggiare, durante decenni, una schiera di ex gerarchi della repubblica sociale di Mussolini, aspiranti golpisti, freddi terroristi, di criminali mafiosi e camorristi, per i quali la guerra civile non è mai finita: essi furono scagliati contro gli italiani in centinaia di attentati. A partire da Portella della Ginestra, e poi a Piazza Fontana, a Brescia, al treno Italicus, alla stazione di Bologna.

Sia chiaro, stragi politiche, stragi di Stato. Perché ciascuna di esse fu progettata ed eseguita seguendo un’unica strategia eversiva, con la diretta complicità di pubblici ufficiali che, anziché difenderla, tradirono la Costituzione democratica votandosi al suo riassetto in senso autoritario. È una storia “politica e criminale” al tempo stesso; accuratamente occultata, le cui tracce sono state disperse con la sistematica distruzione degli archivi, la manomissione dei documenti, la programmatica falsificazione. Quando ragioniamo e discutiamo di neofascismo partiamo sempre da questo fardello che ci trasciniamo da decenni; ci servirà per analizzare e approfondire. ANPI in tutto questo, assieme alla parte sana della società civile e dell’opinione pubblica, dovrà impegnarsi maggiormente per soverchiare questa inerzia che impedisce di svelare ai più la storia recente italiana. Dobbiamo uscire da questo buco nero che trita ogni cosa e annebbia e annacqua ogni verità. E i motivi per cui è importante ai nostri giorni credere nell’antifascismo, come vedete, sono ancora profondi e molteplici.

Alzando lo sguardo e focalizzando i nostri giorni, non da oggi sia chiaro ma negli ultimi anni si è accentuata una spinta identitaria che si riconosce in una delle più belle e sentite tradizioni dell’antifascismo italiano, quella cioè di riunirsi ogni 25 luglio davanti a un piatto di pastasciutta, ricordando e celebrando quella che la famiglia Cervi offrì a tutto il paese, Campegine, per festeggiare la caduta di Mussolini. Come sempre succede, ma in questo caso è più evidente che mai, il 25 luglio 1943 la Storia si intreccia con le storie delle persone. Mussolini che dopo essere stato sfiduciato viene arrestato e imprigionato sul Gran Sasso.

Dopo oltre vent’anni cade il regime fascista, e re Vittorio Emanuele III nomina il maresciallo Pietro Badoglio capo del governo. Non appena appresa la notizia, un paese gioioso di poche migliaia di anime si riunisce davanti a un piatto di pasta. La famiglia Cervi era una famiglia contadina, gente semplice. Di storie di gente semplice ne abbiamo perse a migliaia, e anche quel gesto dell’aver offerto la pasta a tutto il paese avremmo potuto facilmente dimenticarlo. Invece oggi reiteriamo quel gesto e quella vicenda di un minuscolo paese di campagna per ricordare e celebrare la grande Storia. La pastasciutta antifascista è diventata una tradizione, e l’adesione di così tante e tanti a questo momento di convivialità è l’espressione di una coscienza condivisa da un intero Paese, non ci sono busti del duce o revisionismi che tengano. Quest’anno poi la celebrazione si è caricata di alcuni significati ulteriori. Sono passati ottant’anni da quel giorno, e tra pochi mesi saranno ottant’anni dalla fucilazione dei sette fratelli Cervi; ma il tempo passa inarrestabilmente, e non è poi tanto la cifra tonda dell’ottantesimo anniversario che ha reso la pastasciutta antifascista 2023 così sentita e speciale. La pastasciutta antifascista 2023 è stata così  partecipata perché, a ottant’anni di distanza, il patrimonio culturale e valoriale della Resistenza è sotto assedio. Il tentativo di dare un colpo di spugna alla storia, con l'obiettivo di riscriverne un’altra, c’è sempre stato. Oggi però con questa estrema destra al governo c’è chi lo rispolvera e impugna come strumento politico per demolire la memoria democratica. Così si spiegano, vien da pensare, le circa 300 pastasciutte organizzate in tutta Italia, le migliaia di volontari che si sono spesi e le decine di migliaia di partecipanti: il popolo non ci sta, e risponde numeroso ai tentativi di revisionismo. E anche nella nostra provincia questo evento ha avuto un successo notevole in termini di numeri e di entusiasmo. Allo stesso modo, lo scorso 25 aprile ha registrato una partecipazione straordinaria, che ha reso evidente quanto ancora il sentimento antifascista sia radicato nel popolo italiano. Fondamentale per l’organizzazione e la riuscita della pastasciutta è stata, ed è ogni anno, quella straordinaria comunità di persone che è l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ed è importante non perdere di vista il sentimento che mosse in quei giorni la famiglia Cervi. L’Istituto Cervi, poi, ha due grandissimi meriti: ne è il promotore e ha sempre lavorato affinché la pastasciutta fosse una tradizione italiana, piuttosto che emiliana o addirittura reggiana. L’Italia è il Paese dei mille campanili, e quella della pastasciutta è una storia non solo sopravvissuta al tempo ma anche al rischio di divenire tradizione di un singolo Comune o di una sola Regione. Solitamente ogni Municipio che, come da Costituzione, si riconosce nell’antifascismo celebra gli anniversari degli eccidi e dei fatti che lo hanno direttamente coinvolto, la pastasciutta antifascista invece, pur muovendo le sue mosse ogni anno da Casa Cervi, è un patrimonio nazionale e sta divenendo europeo. Questo aver superato i confini del proprio luogo geografico si deve certamente a quello che i sette fratelli Cervi rappresentano. Sarebbe bello infatti ricordare i fratelli Cervi solo per la pastasciutta che, indebitandosi fino al collo, offrirono al paese per celebrare la caduta del fascismo; li ricordiamo invece e forse soprattutto per la loro fucilazione, accorsa pochi mesi dopo, il 28 dicembre 1943, per mano fascista. È bene ricordarlo: non nazista ma fascista, come peraltro è stato per i nostri 7 martiri di piazza Garibaldi; fu una strage fascista non nazista. Ed è per questo che chiederemo all'amministrazione comunale di porre finalmente rimedio all'errore riportato sulla lapide che ricorda l'eccidio.

Sono stati stimati circa in 40.000 i partigiani Caduti nella guerra di Liberazione, i fratelli Cervi rappresentano tutti loro. L’ovvia e dolorosa impossibilità a ricordare nomi e volti di ogni Caduto ha inevitabilmente portato a creare simboli. Il lutto e la commemorazione per i fratelli Cervi sono il lutto e la commemorazione per tutti coloro che diedero la vita per conquistare una forma di società ancora mai vissuta, la democrazia. Allo stesso modo quando si commemorano e celebrano Don Minzoni, Gramsci, Matteotti, Gobetti, o i fratelli Rosselli non si onorano solo loro in quanto tali, ma la lotta antifascista tutta. Ho volutamente citato la pastasciutta antifascista perché credo che questa dia la giusta dimensione per rimarcare l’orgoglio per la nostra comunità, quella antifascista e democratica, che è numerosa, entusiasta e coesa forse più di quanto immaginiamo. Siamo un patrimonio prezioso da non disperdere ma da spendere nella quotidianità. Come Anpi provinciale ci stiamo adoperando per radicarci su tutto il territorio della nostra provincia, compito arduo ma non per questo intendiamo sottrarci. Alcuni importanti risultati li abbiamo raggiunti. Sono tornate attive sezioni storiche come quelle di Felino e Lesignano, mentre nuove sezioni sono nate accompagnate da idee ed entusiasmo. Penso alle sezioni di Monchio-Palanzano, Tizzano Val Parma, Bore e Sissa-Trecasali. Altre realtà come Borgotaro e Montechiarugolo si stanno attrezzando per tornare ad essere protagoniste nei loro territori e tra ottobre e novembre prossimo andremo ai rispettivi congressi rifondativi. Mai come oggi, proprio a causa del tempo difficile in cui viviamo, l’antifascismo si presenta come un sistema di valori di particolare attualità, una speranza concreta di cambiamento, un argine democratico alla palude di tipo razzista, xenofobo, neofascista, presente nel nostro Paese. Come Anpi quindi su quale terreno è opportuno muoverci? Credo sia importante affrontare il presente, perché la sfida nata sulle montagne e nelle città dopo l’8 settembre 1943 e vinta il 25 aprile 1945, continua oggi, quando, più che mai, c’è bisogno di respirare trasparenza, legalità, liberazione. Occorre battersi per una Pace degna di questo nome; per un lavoro sicuro e per salari equi; per l'ambiente che rappresenta la sfida in assoluto; per l'istruzione, per i diritti, per la democrazia! Ma per affrontare il presente con serietà occorre approfondire il passato, fare i conti con la storia, mettere a valore la memoria. E dunque tornare a riflettere – ed in primo luogo conoscere – non solo su quei mesi, ma anche sul tempo successivo, quello della proclamazione della Repubblica, e poi della Costituzione, e poi gli anni ‘50, ‘60 e quello dello stragismo nero e del brigatismo degli anni ‘70 e ‘80; i cosiddetti anni di piombo. 

Parlare del presente e riflettere sul passato è la chiave – l’unica chiave scientifica – per immaginare il futuro. Ed immaginare il futuro oggi, quando siamo sommersi da una cultura delle immagini spesso vuota, dal declino di un sistema di valori umanistico e democratico, da un indebolimento inquietante di quell’insieme di relazioni, stili di vita, principi di convivenza che chiamiamo coesione sociale, vuol dire contribuire a ricostruire una speranza per tutti, in particolare per coloro ai quali sembra che questa speranza sia negata: le ragazze e i ragazzi del nostro Paese. 

Per queste ragioni Anpi dovrà affrontare un ampio spettro di temi: quelli della società e delle idealità, della politica e della memoria, della storia delle persone e dei territori; ma anche quelli della cultura, nella sua accezione più ampia, come testimonianza del presente, portato del passato, presagio del futuro. Cultura, dunque, in tutti i sensi: quella colta e quella popolare, quella letteraria, musicale, scientifica, delle arti visive, dello spettacolo. Insomma, lo specchio magico dell’Italia, dell’Europa, del mondo di oggi. ANPI era, è e sarà partigiana: perché partigiana è la Repubblica democratica, partigiana è la Costituzione, partigiana è la democrazia faticosamente costruitasi nei decenni successivi. Perché partigiano vuol dire essere per la libertà e l’eguaglianza, per la solidarietà e la giustizia sociale, per la legalità e la cittadinanza, per il lavoro e per la pace. Perché l’Anpi assieme alle partigiane e ai partigiani ci hanno consegnato la Costituzione e l’Italia fondata sul lavoro e l’Italia che ripudia la guerra. Perché partigiani – infine – sono tutti coloro che ci hanno consegnato, spesso al prezzo di inenarrabili sofferenze o al prezzo della vita, una nuova Italia. Una grande possibilità che non si è ancora pienamente compiuta, che oggi sembra messa in ombra, per la quale vale la pena continuare a lottare, a testa alta, con la fronte rivolta verso il sole.


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La Via Maestra

La via Maestra

La Costituzione italiana – nata dalla Resistenza – delinea un modello di democrazia e di società che pone alla base della Repubblica il lavoro, l’uguaglianza di tutte le persone, i diritti civili e sociali fondamentali che lo Stato, nella sua articolazione istituzionale unitaria, ha il dovere primario di promuovere attivamente rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.[...]

continua

[...]

Per questo rivendichiamo che i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione tornino ad essere pienamente riconosciuti e siano resi concretamente esigibili ad ogni latitudine del Paese (da nord a sud, dalle grandi città alle periferie, dai centri urbani alle aree interne), a partire da:

► il diritto al lavoro stabile, libero, di qualità – fulcro di un modello di sviluppo sostenibile fondato su nuove politiche industriali– superando la precarietà dilagante, contrastando il lavoro povero e sfruttato, aumentando i salari, col rinnovo dei contratti, e le pensioni oltre al superamento della Legge Fornero. È il momento di introdurre il salario minimo, dare valore generale ai contratti, approvare la legge sulla rappresentanza, strumenti essenziali per contrastare i contratti pirata.

► il diritto alla salute e un Servizio Sanitario Nazionale e un sistema socio sanitario pubblico, solidale e universale, a cui garantire le necessarie risorse economiche, umane e organizzative, per contrastare il continuo indebolimento della sanità pubblica, recuperare i divari nell’assistenza effettivamente erogata, a partire da quella territoriale, e valorizzare il lavoro di cura; investimento sul personale con un piano straordinario pluriennale di assunzioni che vada oltre le stabilizzazioni e il turnover, superi la precarietà e valorizzi le professionalità; sostegno alle persone non autosufficienti; tutela della salute e sicurezza sul lavoro, rilanciando il ruolo della

prevenzione. Solo così si garantisce la piena applicazione dell’articolo 32 della Costituzione.

► il diritto all’istruzione, dall’infanzia ai più alti gradi, e alla formazione permanente e continua, perché il diritto all’apprendimento sia garantito a tutti e tutte e per tutto l’arco della vita.

► il contrasto a povertà e diseguaglianze e la promozione della giustizia sociale, garantendo il diritto all’abitare e un reddito per una vita dignitosa. Il governo va in altra direzione e cancella il Reddito di cittadinanza lasciando tante persone senza alcun sostegno.

► il diritto a un ambiente sano e sicuro in cui vengono tutelati acqua, suolo, biodiversità ed ecosistemi. Per questo è grave aver tolto dal PNRR le risorse sul dissesto idrogeologico, tanto più a fronte delle alluvioni che hanno colpito alcune regioni del Paese e di una crisi climatica che va affrontata con una transizione ecologica fondata sulla difesa e valorizzazione del lavoro e di un’economia rinnovata e sostenibile.

► una politica di pace intesa come ripudio della guerra e con la costruzione di un sistema di difesa integrato con la dimensione civile e nonviolenta. Questi diritti possono essere riaffermati e rafforzati solo attraverso una redistribuzione delle risorse e della ricchezza che chieda di più a chi ha di più per garantire a tutti e a tutte un sistema di welfare pubblico e universalistico che protegga e liberi dai bisogni, a cominciare da una riforma fiscale basata sui principi di equità, generalità e progressività che sono oggi negati tanto da interventi regressivi – come, ad esempio, la flat tax – quanto da una evasione fiscale sempre più insostenibile. Inoltre, giustizia sociale e giustizia ambientale e climatica devono andare di pari passo nella costruzione di un modello sociale che sia “nell’interesse delle future generazioni”, come recita l’art. 9 della nostra Costituzione. Questo modello sociale – fondato su uguaglianza, solidarietà, accoglienza, e partecipazione – costituisce l’antitesi del modello che vuole realizzare l’attuale maggioranza di Governo con le prime scelte che ha già compiuto e, soprattutto, con le misure che si appresta a varare, a partire da quelle che – se non fermate – sono destinate a scardinare le fondamenta stesse

dell’impianto della Repubblica, come:

► l’autonomia differenziata, rilanciata con il DDL Calderoli, che porterà alla definitiva disarticolazione di un sistema unitario di diritti e di politiche pubbliche volte a promuovere lo sviluppo di tutti i territori;

► il superamento del modello di Repubblica parlamentare attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (presidenzialismo, semi-presidenzialismo o premierato che sia) che ridurrà ulteriormente gli spazi di democrazia, partecipazione e mediazione istituzionale, politica e sociale, rompendo irrimediabilmente l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità.

La Costituzione antifascista nata dalla Resistenza – nel riconoscere il lavoro come elemento fondativo, la sovranità del popolo, la responsabilità delle istituzioni pubbliche di garantire l’uguaglianza sostanziale delle persone, i diritti delle donne, il dovere della solidarietà, la centralità della tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali – ha delineato un assetto istituzionale che, attraverso la centralità del Parlamento, fosse il più idoneo ad assicurare questi principi costitutivi e a realizzare un rapporto tra cittadini/e e istituzioni che non si esaurisce nel solo esercizio

periodico del voto ma si sviluppa quotidianamente nella dialettica democratica e nella costante partecipazione collettiva della rappresentanza in tutte le sue declinazioni politiche, sociali e civili.

Per contrastare la deriva in corso e riaffermare la necessità di un modello sociale e di sviluppo che riparta dall’attuazione della Costituzione, non dal suo stravolgimento, ci impegniamo in un percorso di confronto, iniziativa e mobilitazione comune che – a partire dai territori e nel pieno rispetto delle prerogative di ciascuno – rimetta al centro la necessità di garantire a tutte le persone e in tutto il Paese i diritti fondamentali e di salvaguardare la centralità del Parlamento contro ogni deriva di natura plebiscitaria fondata sull’uomo o sulla donna soli al comando.

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